Interpretazioni di contemporanei
Pubblicato in: Corriere Emiliano, anno VI, p. 3
Data: 30 novembre 1927
Siamo d'accordo: Panini è uno scrittore che bisogna cercare e intendere in tutte le pagine che à scritto: dalle più disuguali e mediocri alle mature e lineari. Non lo si può circoscrivere in un libro rappresentativo senza nuocere agli altri; nè lo si può catalogare senza perdere molto di quello che rappresenta il fascino della sua personalità.
Affidatosi al genere letterario più convenzionale e caduco — la polemica — il suo stile risentì sempre degli umori del momento e gettò da sè le basi per una critica negativa della sua opera.
Enzo Palmieri si è mostrato consapevole di questa esigenza, e à scritto un libro, in cui, forse, non ci sono nuove scoperte, ma nel quale ripassano, ben ordinati e sistemati, venticinque anni di attività letteraria, che coincidono coi momenti più memorabili di questo quarto di secolo, perché vedono nascere maturare nomi e libri gloriosi e aiutano il formarsi di quella atmosfera della gioventù italiana del primo 900 in cui si fecero feconde battaglie e si tentarono ardui cimenti.
Ma l'opera del Papini, messa a contatto con le maggiori correnti spirituali contemporanee e fatta assurgere a rappresentativa di un'epoca, non è mai liberata dai suoi vincoli esteriori — che son poi quelli sui quali si è esercitata con maggiore monotonia la critica di due generazioni —, e non è collocata nel centro vivo della sua ispirazione più essenziale e lirica. La quale va còlta nelle pagine più serene e robuste: sia che esse rendano vigorosa e sincera la passione polemica riuscendo a far penetrare elementi vergini immediati nell'aridità convenzionale della discussione caparbia e settaria; sia che il dramma dall'espressione, colorendosi di venature regionalistiche, aiuti il formarsi e l'approfondirsi di un mondo poetico.
Le origini intellettuali del Palmieri sono, direi, avventurose sebbene abbiano un senso di serietà che ce le fa rispettare. Un suo libro sul D'Annunzio, ricco d'idee e d'illazioni, ma povero di sviluppi e costruito a cerchi concentrici dai quali non era possibile nessuna ferma conclusione, ci parve, infatti, caotico e provvisorio: come, del resto, era torbida e provvisoria la idealità di quei giovani napoletani fra i quali militò e dai quali nacquero quelle Crociere barbare (1915) che diedero il titolo al suo libro dannunziano (1920), il cui capitolo Laoocontea è passato in questa «interpretazione» papiniana, dando l'aire al suo metodo critico.
C'è, nel Palmieri, un bisogno di chiarezza ch'è comune a molti giovani della nuova generazione; i quali mirano ad avvicinarsi agli scrittori con la serenità dei posteri: e non si dice, con ciò, ch'essi realizzino davvero tutte le loro intenzioni, perché non sempre lo sguardo sa dominare, dall'alto, il vasto panorama della letteratura e calcolare l'analisi nel punto vivo dell'opera.
I problemi collaterali — tutti i «marginalia» del Panini — sono scrutati con ostinata pazienza; ma al Palmieri sfugge quello che avrebbe maggiormente interessato un critico di ben altra natura e sensibilità: ed è il Papini scrittore. Bastava che egli coordinasse in un capitolo riassuntivo (alcune notazioni sparse qua e là nel volume sono generiche e fiacche,) le conclusioni dei suoi studi, perché il Papini uscisse più, limpido e dominatore: spoglio dei veli apollinei che lo fecero signoreggiare e tiranneggiare nei primi anni del nostro secolo, e messo a diretto contatto con una tradizione popolare ed indigena che in lui assunse aspetti nuovi e impreveduti, e che spiega il valore della sua arte e il significato della sua posizione nella nostra letteratura.
Può sembrare assurda e irrispettosa l'intenzione di far rientrare il Papini nell'ambito della letteratura provinciale; ma una critica volta a integrare e correggere molti giudizi correnti e ancora lontani da una giusta misura, non può prescindere da questa ambientazione storica che è la migliore comprensione d'uno scrittore in cui sembrerebbe difficile poter sentire quella forza ingenua e spontanea ch'è nello spirito delle cose alle quali si è familiari, ma che, in realtà, è fortemente legato alle origini letterarie e domestiche della Toscana: ma d'una Toscana passata attraverso la sua anima dolorosa e scontenta.
Nella sua arte nasce e germoglia una tradizione di stile che direi leopardiana — con quel tanto di splendore cinquecentesco ch'è negli ideali artistici del Papini — perchè vi circola una semplicità sana e cordiale ch'è l'equilibrio dell'anima del poeta con l'universo. Chi à presenti i primi capitoli dell'Uomo finito, alcuni brani dei Giorni di Festa, delle Cento pagine e della Storia e certe visioni agresti d'un Papini frammentario ma nativo e abbandonato, intende meglio quella verità.
Nel Papini scrittore si fa più umano il dramma della sua esistenza: e la pagina diventa scabra e solitaria, accorata e disadorna; vicina al senso eterno delle cose: armoniosa; ma non già per opulenza verbale, ma peril miracolo dell'anima che si fa chiara e canta.
E' un'arte acerba: non è vero che Papini sia, come i suoi fratelli toscani, facile e loquace! E' anzi, uno scrittore pieno di anfrattuosità, che conquista la poesia con lentezza e fatica: con quell'insonne caparbietà che lascia tanta amarezza nella pagina sofferta, perchè ogni riga serba la stanchezza dei contatti più pericolosi (egli è consapevole di dover combattere coi suoi vizi letterari), e si fa accorata e profonda, pudica e raccolta.
Tutto ciò fa pensare che il compito della critica di fronte a questo autore non sia ancora finito: e c'è da credere che sorgeranno nuovi interessi, e più cordiali contatti con alcuni esegeti precedenti (Serra, Fondi, ecc.) volti a comporre, idealmente, una scelta delle migliori pagine papiniane. Allora, si potrà meglio stabilire la loro consanguineità con altre espressioni dell'arte contemporanea e vedere quali, fra esse, son destinate a resistere alla rapina del tempo.
Enzo Palmieri: «Interpretazioni del mio Tempo. 1. Giovanni Papini». Vallecchi ed., Firenze.
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