in "recensioni":
Papini di Mario Isnenghi
Pubblicato in: Belfagor, vol. 30, fasc. 4, pp. 490-493.
(490-491-492-493)
Data: luglio 1975
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MARIO ISNENGHI, Papini, Firenze, La Nuova Italia, 1972, pp. 220.
Con un'analisi della attività letteraria di Papini, Mario Isnenghi ripropone alla discussione il tema della funzione dell'intellettuale nella società contemporanea e del ruolo delle avanguardie letterarie novecentesche. Lo studio monografico, che segue nel loro sviluppo le contraddizioni e le oscillazioni che hanno caratterizzato la vasta produzione letteraria di Papini, trova in tale tema il suo filo connduttore: ciò che interessa Isnenghi è la figura dell'intellettuale, che non va né condannato né idoleggiato, secondo lo schema su cui si è mossa la critica, pronta ad un giudizio parziale ed unilaterale. La multiforme produzione di Papini impone d'andare al di là della maschera che egli stesso e i critici hanno costruito e di superare le interpretazioni di parte, le esaltazioni per il « Papini lirico », le critiche per l'« uomo Papini », il disprezzo per il « Papini iconoclasta », e permette di cogliere ciò che di piú profondo e stimolante scaturisce dalla sua esperienza di intellettuale militante, che appunto in tale ruolo, pur nelle contraddittorie dichiarazioni di fede, trova il suo elemento di continuità. Questo è l'aspetto di fondo dell'esperienza di Papini, comune del resto a quella delle avanguardie primonovecentesche in Italia. La sua è dunque una figura emblematica, che riassume in sé conflitti, tensioni, contraddizioni proprie di una generazione di intellettuali.
Lo slancio vitalistico, che porta lo scrittore ad orientarsi nelle piú diverse direzioni, mostra esso stesso il carattere ed i limiti della ricerca di un ruolo in cui riconoscersi, di un mandato sociale di cui farsi carico. Questo slancio gli permette di continuare incessantemente tale ricerca, di criticare i valori di quella tradizione in cui non può piú riconoscersi, ma contro cui viene sempre a scontrarsi per l'incapacità di opporre qualcosa in positivo alla critica, alla distruzione. Di qui lo sviluppo del conflitto esistenziale di una coscienza che non sa piú realizzarsi, di qui la nascita di una contraddizione: l'intellettuale infatti vuole difendere l'autonomia del proprio ruolo, ma questo fatto non può che provocare disorientamento e incapacità di comunicazione verso un pubblico che, d'altra parte, non è piú riconosciuto come interlocutore. Questo conflitto andrà avanti negli gli anni, senza che una soluzione stabile possa mai essere raggiunta. Se l'affannosa ricerca di una identità potrà infatti in alcuni particolari momenti arrivare ad un punto stabile, ad una sicurezza (che poi significa l'integrazione nel sistema, l'accettazione della tradizione), questo stato non potrà che essere limitato nel tempo, e immediatamente rimesso in discussione. L'ambivalenza, la scissione, la dissociazione non permettono all'intellettuale di riconoscersi in un ruolo e ciò lo costringe a cambiare continuamente direzione, in una sorta di « rivoluzione permanente ».
L'oscillazione di Papini è dunque tra un ribellismo di fondo e una tensione continua verso un punto fermo, una certezza che non riesce ad afferrare. Per questo motivo la sua rottura con la tradizione non potrà essere definitiva, anzi il richiamo di essa continuerà a pesare e a modificare la direzione verso cui egli intende muoversi.
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Ma tali contraddizioni non costituiscono soltanto gli elementi di una coscienza individuale, non sono solo « il groviglio personale di contraddizioni psicologiche »: « è forse la condizione storica dell'intellettuale avant guerre, che sconta un ventaglio di tensioni centrifughe e di richiami incomponibili » (Isnenghi, Introduzione a R. Serra, Scritti letterari morali e politici, Torino 1974, p. XIV). È condizione della generazione della « Voce » e delle altre riviste fiorentine, di quello che si è caratterizzato come un vero e proprio movimento di idee, con una esplosiva carica antiborghese e una violenta ansia di rottura con la tradizione. Ma come Papini, la stessa avanguardia primonovecentesca non riesce ad incanalare il proprio spirito antiborghese e la propria disponibilità rivoluzionaria verso una direzione precisa, non riesce ad intravedere una alternativa storica che possa dare soluzioni alla crisi e permetterle di venir fuori dalla condizione di subalternità nei confronti della borghesia. È questo l'aspetto che Isnenghi sottolinea, a partire dall'esperienza culturale ed anche politica di Papini, un'esperienza certo non chiusa in sé, ma al contrario emblematica di tutta una condizione storica. Seguendo le oscillazioni che tale esperienza ha subito nel tempo è possibile ricostruire una condizione storica piú vasta ed illuminare così tutta una zona dell'esperienza politico-culturale del primo Novecento italiano, cogliendone gli aspetti piú originali e il piú profondo significato storico. In effetti le continue oscillazioni tra un atteggiamento ribellistico ed anarchico e, al suo opposto, la ricerca dell'ordine, della disciplina, il culto della tradizione costituiscono i tratti essenziali di quella esperienza; l'apertura verso posizioni potenzialmente rivoluzionarie, ma insieme i limiti storici, addirittura il provincialismo di molte posizioni. Le stesse pagine di Papini si possono sí leggere nel loro senso piú tradizionalista, ma si possono anche leggere come « l'aspra e dissacrante rivelazione della Violenza su cui si regge strutturalmente la civiltà industriale » (p. 76). Isnenghi coglie appunto questa duplicità ed è qui che le sue premesse metodologiche raggiungono i risultati piú efficaci: egli infatti chiarisce nella sua analisi il senso profondo della esigenza di rottura, della volontà di distruzione non solo di Papini, ma di tutto il movimento letterario del primo Novecento italiano, la disponibilità verso posizioni radicali, ma anche i pericoli, presenti in quella stessa carica antiborghese, di involuzioni apertamente di destra. Questo è l'elemento di fondo delle posizioni di Papini, che la critica « di parte » (sia di destra che di sinistra) non ha saputo sottolineare. In questo senso si può considerare parziale, come fa Isnenghi, lo stesso giudizio su Papini del Gramsci dei Quaderni del carcere, giudizio che contribuì alla formazione di un'immagine unilaterale dello scrittore, « un Papini trasformista ed opportunista » (p. 8), « uno dei personaggi negativi della sua ricca galleria a rovescio di intellettuali ed organizzatori di cultura» (pp. 8-9). Adottando il punto di vista di Isnenghi è invece possibile cogliere la problematicità e l'ambivalenza dello scrittore, senza limitarsi ad un giudizio liquidatorio.
Anche di fronte al conflitto mondiale l'intellettuale Papini non può agire in modo univoco: tutte le sue intenzioni, le sue aspirazioni, e contraddittoriamente le sue fughe di fronte alla realtà esplodono violentemente. Ciò che anche in questa occasione lo spinge ad agire, a scrivere, a svolgere fino in fondo il suo ruolo di intellettuale, è la ricerca di un mandato sociale. Tuttavia quello che distingue il suo atteggiamento, rispetto alle posizioni assunte negli anni precedenti, è che esso appare ormai aperto ad esiti tradizionalisti e regressivi. Certo si può ancora sostenere che manca a Papini una collocazione precisa, perché la scelta di uno schieramento si rivela puramente esteriore, in un periodo in cui è « massima l'ambivalenza » e la « reversibilità sovversiva » (p. 98): però, al contrario degli anni del « Leonardo » e della prima « Voce », lo scrittore appare ora ormai orientato verso una direzione da cui non tornerà piú
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indietro. Se negli anni precedenti alla guerra, infatti, l'oscillazione degli intellettuali e dello stesso Papini muoveva da due punti di vista decisamente contrastanti, caratterizzati da una incapacità di scelta tra i due poli della contraddizione, che perciò risultava l'elemento dominante, ora proprio questo aspetto, la contraddizione, viene meno. Essa è solo un elemento esteriore, il segno di un passato che si cerca inutilmente di ripetere, ma che in realtà è impossibile richiamare in vita. Ed anche in questo atteggiamento Papini non è isolato; esso coinvolge una intera generazione di intellettuali. La guerra ha distratto ogni possibilità di autonomia della cultura dalla politica: ogni ricerca da parte degli intellettuali di un ruolo autonomo si rivela impraticabile. Gli intellettuali perdono, proprio perché gli spazi culturali si sono ristretti a tal punto da poter ormai essere considerati esauriti, la funzione di mediatori tra le esigenze della classe dominante e gli interessi di strati sociali piccolo-borghesi. Costretti a scegliere, essi si oppongono con fermezza alle spinte sempre piú decise che provengono dalle masse popolari e dalla classe operaia, e fanno blocco intorno alla classe dominante.
Tuttavia, nonostante sia chiara la direzione verso cui questa generazione di intellettuali si orienta, le potenzialità espresse dalla spinta antiborghese e dalla volontà di distrazione che ha caratterizzato l'esperienza letteraria primonovecentesca, non possono essere considerate solo alla luce del ripiegamento e della rinuncia successivi. Lo stesso Gramsci, come è stato notato (cfr. R. Luperini, Letteratura e ideologia nel primo novecento italiano, Pisa 1973, pp. 19-30), il Granisci del '21-'22, sottolinea proprio questo aspetto, il senso di disponibilità rivoluzionaria presente nella carica eversiva espressa dal futurismo, ciò che di nuovo esso offriva sia in campo culturale, ma soprattutto in campo politico, per il suo ruolo di demistificazione e di critica continua della società borghese. Questo aspetto non può perciò essere ignorato o liquidato, considerandolo soltanto rispetto alle scelte successive, orientate in senso nazionalistico e fascista. In tale direzione critica pare muoversi il Petronio che dell'aspetto antiborghese del futurismo e dei movimenti letterari prirnonovecenteschi coglie solo l'elemento deteriore, la polemica da destra contro la borghesia « accusata di cedere neghittosamente e vilmente alle ' masse ' » (G. Petronio, Il verme nel formaggio, in « Problemi » n. 35; ma v. anche la sua introduzione a G. Petronio - L. Martinelli, Novecento letterario in Italia, vol. I, Palermo 1974). L'atteggiamento del Petronio non è isolato: si ricollega ad una tradizione critica che è stata tipica dello storicismo di sinistra postbellico e che oggi viene posta in discussione (e non solo da Isnenghi o da Luperini, si veda il libro di A. L. De Castris, Il decadentismo. Sveno Pirandello D'Annunzio, Bari 1974) da quanti puntano la loro attenzione sulla storia del « ceto intellettuale » in sé piú che sui valori (positivi o negativi) della sua ideologia. Il recente dibattito su « Problemi », n. 40, tra Isnenghi e Petronio ripropone tale contrapposizione: infatti se il Petronio si limita ancora una volta ad un sommario giudizio ideologico di condanna del ribellismo primonovecentesco, Isnenghi sembra sottovalutare le responsabilità storiche degli intellettuali attribuendo la colpa dei loro cedimenti principalmente alla politica di un movimento operaio incapace di raccogliere e di guidare in senso rivoluzionario le loro spinte eversive. Isnenghi, insomma, rischia di cadere nell'errore opposto a quello di Petronio: e ciò si riscontra poi, a livello critico, in questo volume del « Castoro ». Egli infatti sottolinea il carattere dialettico dell'esperienza letteraria primonovecentesca, l'impassibilità che la contraddizione tra ribellismo e accettazione dell'ordine possa essere in qualche modo composta, ma trasporta questa contraddizione al di là del preciso periodo storico in cui essa si rivela (quello della grande guerra) perdendo di vista il punto d'arrivo
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dell'esperienza culturale e politica degli intellettuali primonovecenteschi: la chiusura in senso reazionario. È questa scelta di chiudersi in uno schieramento (e per di piú in uno schieramento reazionario e antioperaio) che va maggiormente sottolineata rispetto a quanto faccia Isnenghi. In tale situazione gli intellettuali di quella generazione rivelano ancora una volta il provincialismo ed i limiti delle proprie posizioni: nel momento in cui risolvono la contraddizione e conquistano una certezza, si fermano, incapaci di adeguarsi ai tempi, perdendo il loro ruolo di avanguardia. Essi sono in pratica tagliati fuori dal dibattito culturale e politico in cui è coinvolta la nuova generazione dí intellettuali e, come lo stesso Isnenghi riconosce, « non sanno riconvertire se stessi ai nuovi compiti che l'ora diversa propone » (p. 133).
Ma allora è proprio qui che non possiamo fare a meno di definire in termini politici chiari l'esperienza di Papini, cogliendo i limiti storici e culturali del suo trasformismo, le sue clamorose cadute, i suoi abbagli, ma individuando soprattutto quell'elemento che negli anni successivi alla guerra resterà costante nonostante l'apparente ambivalenza: la sua scelta di uno schieramento. Il giudizio di Gramsci, che pure Isnenghi aveva considerato parziale ed unilaterale (ma è volutamente, esplicitamente tale), sottolinea proprio questo aspetto: « se un bambino rompe i vetri per divertirsi o per monelleria sia pure artificiosa, è una cosa, ma se rompe i vetri per conto dei venditori di vetro è un'altra cosa » (A. Gramsci, Letteratura e vita nazionale, Torino 1972, p. 161). Papini alla fine rappresenta, al di là delle sue contraddizioni, l'intellettuale al servizio della borghesia, organicamente inserito in essa, portavoce dei suoi settori piú retrivi e reazionari. E questa conclusione non può essere sottintesa per il peso che l'ideologia reazionaria e cattolico-integralista, di cui egli finì per farsi portatore, continua ad esercitare: si tratta di individuare non soltanto l'incidenza di Papini su un filone culturale dichiaratamente di destra, ma di cogliere le responsabilità politiche di una serie di intellettuali che offrirono ai « venditori di vetro » í presupposti ideologici su cui fondare il proprio potere, non solo nel ventennio fascista, ma anche nel trentennio successivo di regime democristiano.
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