L'Uomo infinito
Pubblicato in:: Lirica, anno I, fasc. VI, pp. 219–220
(219-220)
Data: giugno 1912
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È Giovanni Papini. Il suo spirito irrequieto e la sua operosità infaticabile, febbrile, sicura, variissima e riassumente ne fanno ormai un uomo rappresentativo: l'uomo infinito. Infatti: dopo trovata la pietra filosofale del pragmatismo; sfatate molte sciocche leggende sui filosofi e sulla filosofia; gettate scomuniche a una dozzina di personaggi e di dottrine che giustamente non gli gustavano; scritta una mezza dozzina di volumi letterario-filosofici e filosofico-letterari; fatta luce, in un memorabile articolo, nella Voce, sul conflitto fra le due tradizioni della letteratura italiana, una plebea e l'altra... petrarchesca (che dramma, o Sem Benelli!); scoperta la letteratura, se non erro, spagnola; ecc. ecc.; Giovanni Papini, o signori, pur dirigendo pubblicazioni, di libri letterari e filosofici, pur traducendo e collezionando, pure scrivendo versi e romanzi, e dirigendo un giornale settimanale, ha trovato il tempo di comporre un mirabile articolo che farà epoca (Voce, 30 Maggio), nel quale ha finalmente scoperto quale sia la vera essenza dell'arte: la vera. Va bene? — Ma, intendiamoci, non si tratta d'uno dei soliti rancidumi filosofici da denominarsi un'Estetica, magari in nuce! No, e poi no. Si tratta di una libera e personale ma definitiva definizione del genio poetico. Insomma, Papini ha scoperto che Omero, Cervantes, Shakespeare, Dostojewski (che cultura! eppoi, si vede benissimo che a Papini debbono ripugnare le liste troppo lunghe, perchè altrimenti!...) scrivevano «per divertir la gente», e che erano tutti «buffoni». Se volete, «intendete pure la parola nel senso più nobile», ma insomma costoro scrivevano «col fine di procurare agli uomini un trattenimento piacevole» e precisamente «con la speranza di una ricompensa, — sia una rama d'alloro, o un'epigrafe gloriosa, o lo sbattio delle mani, o diecimila lire in contanti». — Mi sono spiegato?
E adesso che vi abbiamo, o lettori, dato notizia dell'ultima scoperta letteraria della stagione; permettete che vi diciamo una paroletta all'orecchio? Ma per carità, che nessuno ci senta! Dunque, il sullodato articoletto dovrà essere, si dice, come la prefazione di un ROMANZO, che, con la solita modestia, Papini ha intitolato L'uomo finito, e che sta per essere lanciato all'indegnissimo pubblico. Direte voi: «Oh, un romanzo! E allora?» Ingenui che siete! Ma non capite che un romanzo non sempre è scritto «per divertir la gente», e che può essere benissimo, ad esempio, un romanzo d'idee»? — Ebbene? — insistete voi. Uh, ma non capite proprio
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niente! Quando si è scritto un romanzo d'idee, bisogna scuotere la pigrizia degl'italiani, bisogna darsi da fare, senza averne l'aria, e suscitare, potendo, un po' di scandaletto, e pizzicare i nervi del prossimo con un qualche paradossuccio alla Tolstoi; e, se non altro, per riscuotere dal pubblico un battimano o un po' di vocio, quando si è scritto un libro così così (che malignità!), bisogna almeno scrivere una prefazione veramente eccezionale, o almeno, un previo articolo che prepari il terreno! — Oh, hanno mille ragioni, Papini e i papiniani, quando affermano che, tranne che a Firenze, (piazza Davanzati, 2), i giovani d'Italia sono tante mummie, e non sanno neppur distinguere dove finisco Papini e dove comincia un suo scritto. Mah, che volete! (rispondiamo umilmente, per tentar di giustificarci) saper che a piazza Davanzati c'è tanto e poi tanto ingegno in fermento ci ha sbigottiti, e ormai, persuasi che non c'è più nulla da fare, abbiamo aperto bene gli occhi per stare almeno a godere lo spettacolo. A proposito: si dice inoltre che l'articolo, nella Voce, sulle due tradizioni letterario italiane (una plebea e l'altra... puah!) sia come una prefazione veramente eccezionale d'un annunciato libro di versi papiniani, intitolato «Sonetti plebei». Avete capito? — Già: poichè l'uomo infinito è infinitamente letterario, e perciò dice male anche della letteratura: ma con lo scopo evidente di far intendere agli altri che se non dice male di se stesso e dei propri libri, si è per la buona ragione che tutto ciò sarebbe d'una modestia eccessiva e di pessimo gusto. Gli uomini d'ingegno infatti bisogna indovinarli, se si vuole capirli. E così, quando Papini, sempre nel suo articolo, dice che, a costo di morir di fame, ecc., non farà mai il buffone, vale a dire non farà mai l'Omero, lo Shakespeare, e simili, insiste alquanto sulla sua solita modestia. E chiaro che egli non potrà mai essere come uno di cotesti ciarlatani, giacchè egli è qualche cosa di più, di molto di più: egli è l'uomo infinito. Ma tutto ciò bisognava dirlo esplicitamente, e non contentarsi di lasciarlo indovinare, poichè molti sono i maligni e gl'invidiosi, i quali fanno i sordi, o fingono di non capire. Auguriamoci che Papini li confonda definitivamente in altri articoli autobiografici, liberandosi dal suo antiquato candore.
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