Articoli su Giovanni Papini

1921


Ugo Ojetti

Papini

Pubblicato in: L'Illustrazione Italiana, anno XLVIII, fasc. 26, p. 770.
Data: 26 giugno 1921




   Napoleone terzo, quando all'età, presso a poco, di Giovanni Papini fu ben cotto di Eugenia Montijo ed ella ancora si rifiutava, durante un ballo nel vano d'una finestra si fece animo e le pose la gran domanda: - Ma insomma quale èlastrada per arrivare al vostro cuore? - Bisogna sire, passare dalla chiesa - rispose tranquilla la bionda. Non dico che Giovanni Papini per sposarsi finalmente al gran pubblico e alle grandi adorate edizioni, non avesse altra via: ma insomma la più piana, sicura e diritta era quella suggerita dalla Montijo allo spasimante imperatore. E anch'egli l'ha presa, d'impeto, meravigliandosi, come tutti gli innamorati non più giovani, che altri, sulle prime, un poco se ne meravigli e mormori.
   Il Papini non sa dubitare. Conosce, dice, tutte le febbri, ma non quella del dubbio il quale alla fine può anche non essere una febbre, ma una sorta di pace ventilata e cullata dal si al no. Questa sua perentoria certezza forse è diventata cogli anni la sua difesa anche contro se stesso: un muro tirato su in fretta, con tutti i sassi che capitano sotto mano, pur di ripararsi dalle raffiche opposte e dalle vedute spiacevoli. Forse èanche ilmodo più acconcio se non a convincere il prossimo, a far proseliti e a sbalordire. La dialettica papiniana si èformata per anni al caffè, che èunpò una piazza e dove ogni giudizio è un poco una scommessa. L'andatura del suo Pegaso, insomma, nonèmai l'ambio: o il galoppo, anzi la carriera, o la pastura al sereno sulla pratora dell'Elicona (Momenti rari: ma le poche pagine di Papini georgico io me le godo e assaporo più di ogni altra pagina sua.) Doveva entrare in Chiesa? L'ha attraversata tutta di corsa, a testa bassa non si sa se per l'impeto o per la pietà, dalla porta all'abside, anzi alla sacrestia: e poi su fino allo studiolo del curato con l'oleografia del Cuor di Gesù, e allo studio di monsignor Vescovo col ritratto addirittura di papa Benedetto.
   - C'est una barre de fer, - diceva Renan del cattolicesimo quando era anch'egli sul punto di convertirsi, ma in quell'altro senso: - On ne raisonne pas avec una barre de fer. - Papini ha subito rinunciato a ragionare, felice d'aver finalmente trovato qualche cosa di solido su cui appoggiarsi e riposarsi dopo tanto scavallare, su cui godere l'illusione di riposarsi e di respirare davanti a un gran cielo. La sbarra di ferro è un pò per lui la sbarra di una ringhiera.
   Egli ha accettato dalla Chiesa tutti gli amori e tutti gli odii, e le stesse antipatie che il più aggrondato degli ortodossi gli avrebbe permesso di dimenticare. Non gli è bastato di decapitare, e di stroncare che dir si voglia, Giove ed Apollo, Cesare ed Augusto: ha dato una ripassata anche a Socrate e ad Orazio, a Seneca e a Renan. Un secolo dopo Cristo v'erano i padri della Chiesa come Giustino che chiamavano cristiani Eraclito e Socrate. In questo apocalittico anno 1921, l'apologista Giovanni non perdona nemmeno a loro: appena un poco perdona a se stesso perché del suo lungo errore glipar giusto dare colpa anche a quest'epoca convulsa e volubile. Epoca putrida, epoca abietta come nessun'altra mai, a udir Papini il quale, per uno dei tanti inattesi trastulli del Maligno, prova in fondo una certa soddisfazione e superbia ad esser capitato sulla terra proprio in quest'epoca superlativa.
   Qualcosa di simile egli prova anche quando vanta brutto bruttissimo, sotto la chioma arruffata, il suo pallido volto e lafronte rotonda e le gote infossate e gli arrossati occhi di miope e quella ruga dritta e fonda tra i due occhi che pare una cicatrice di saetta.Non ammette attenuanti cortesi, interpretazioni alla Lavater. Vuole esser brutto, e soprattutto esser detto brutto: anche qui fedele al suo Uomo Carducci che tanto si delettava a far l'orco: «lo so, e me ne diverto meco stesso, di esser tanto brutto da far paura....» Superbia dell'umiltà, che t'impone l'evidente bellezza d'un contrasto tra volto e spirito. L'Uomo Carducci. Ha qualcuno osservato che la Storia di Cristo è della stessa precisa fattura? Nel Carducci era palese che il Papini cercava se stesso: qui nella storia di Gesù, questa ricerca è meno palese, meno lecita, più involontaria. Ma leggete un capitolo, Il Capovolgitore: «Il più gran rovesciatore è Gesù, il supremo Paradossista, il Capovolgitore radicale e senza paura....» Anche lui.
   Credo che dovremo adattarci a perdonare con grazia a Giovanni Papini, anche adesso che è tutto da capo a piedi cristiano, questo tanto di superbia, e magari di scontrosa e feroce superbia. È una qualità, dopo tutto, ecclesiastica: la qualitàdi tutti gli eletti dal popolo o da Dio. - Non tibi sed Petro. - Et mihi et Petro - Chi s'abbassa sarà innalzato. Forse per questo s'abbassa. Ed io scrittore tanto più volentieri concederò il diritto di questa superbia al Papini perché egli è maestro nell'arte che io servo. « Siam condannati alla letteratura perpetua, al carcere duro del dizionario», egli scrisse una volta: ma è una cara galera, dopo tutto, in cui, nella diminuzione del personale vagante imposta dalla democrazia, a lui spetta ancora il diritto uno dei due o tre posti di capociurma. E poi a me romano piacciono questi pochi cattolici, superstiti e neofiti, ancora innamorati dell'assoluto, ancora convinti che l'amore tra gli uomini va imposto d'autorità, magari con qualche rogo ben secco e qualche corda ben unta; che l'autorità insomma precede e governa l'amore e gli impedisce di diventare stupido ed ubriaco. Essi mi piacciono più dei tanti rincinfrignati succiampolle del cristianesimo aggraziato oggi di moda, per dirla con Domenico Giuliotti, un altro cattolico spietato che divide, se non erro, l'umanità in tre parti: quella buona, quella che ancora si può sperare di convertire o d'incatenare, e quella senza speranza che bisogna mandare presto all'altro mondo, più vicina a Dio, perché se la spicci lui che è onnipotente. Ma non ho mai osato domandare al Giuliotti di quanti uomini consti oggi la parte buona. A chiedergli di contarmeli sulle dita, temo che si ficchi subito una mano in tasca.
   Insomma se c'è una cosa che io ammiri nella conversione di Giovanni Papini è proprio quello che gli altri non ammirano: il modo, cioè, repentino e totale con cui egli s'è convertito, non solo perché così egli è stato fedele a se stesso e a quel suo continuo rischioso e anche generoso costume di darsi tutto per prendere tutto, in un abbraccio e in un sorso, ma anche perché egli ha così rivelato, senza formularla in parole, la sua intima tragedia: la tragedia della sua stanchezza. In ogni frase del suo nuovo libro sento l'ansimare di chi non ne poteva più: non ne poteva più d'esser solo, di non aver trovato in tanti anni di fame e sete intellettuale e morale un cibo sodo e nutriente, in tanti anni di vagabondaggio da un'idea all'altra e da un libro all'altro una casa per l'anima sua. Certo, anche qui s'ha da fare la sua parte alla guerra, a questa guerra che tutti giuravano non avrebbe, nei cervelli e nei cuori, mutato niente. Come nei corpi essa ha fatto scoppiar fuori le tare nascoste e accellerato tutte le decomposizioni, così nelle anime. Senza la guerra, senza il terremoto e lo spasimo, e l'insanguinato terrore della guerra, Giovanni Papini avrebbe continuato i suoi giochi di funambolo sulla lucida corda d'acciaio della sua intelligenza tesa. Invece eccolo qua, rifugiato nella Chiesa di corsa come uno che vi sia precipitato a cercarvi asilo e sicurezza contro un pericolo urgente e mortale e tocchi le mura, i pilastri, gli altari, i cancelli e gridi, a confortare se stesso prima di tutto: - Sono di granito, sono di ferro, durano da secoli, dureranno sempre, mi difenderanno per sempre - .
   In questo scrittore, finora così raramente umano e commosso, questo spettacolo e queste grida oggi commuovono.
   Ma per lui le difficoltà cominciano adesso. Il suo libro è un proclama di fede solo se è anche un programma di vita, cioè di lavoro. Il cancello è di ferro, d'accordo: ma gli si è chiuso dietro.


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