Intelligenze
Pubblicato in: Corriere Emiliano (Gazzetta di Parma), anno VII (anno 174, n.28), p. 3
Data: 2 febbraio 1929
Ci sono, qua a Firenze, tre uomini intelligenti.
Intendiamoci, io non voglio dire con questo che oggi, a Firenze, tre uomini soli sono intelligenti. Ma dico che questi tre sono sicurameute intelligenti. E del resto, tre autentiche intelligenze, in una città che conta 300 mila abitanti, non è poi una percentuale troppo bassa.
Diversissimi di carattere e di attività, questa sola dote li accomuna, che è anche la sola che sia propria dell'uomo: la intelligenza; e con essa, la amicizia che li lega, e li rende in certo modo fratelli. Del resto, scrittori e animatori tutti e tre.
Questi uomini sono Papini, Manacorda e Barfucci.
In essi io non voglio oggi vedere gli scrittori. Non voglio parlare dei loro libri. Voglio isolarli da essi, se pur sia possibile, e vedere soltanto la loro umanità. Pochi altri uomini io conosco così degni di essere osservati con curiosità e simpatia; pochi altri spiriti così degni di attenzione. Dalle loro bocche non ho mai sentito uscire una parola insignificante o banale. Non li ho mai sentiti parlare a vuoto. Ho detto che sono tre animatori. Ricchissimi di contenuto spirituale, arricchiscono chi li avvicina. Non si esce mai indifferenti da una loro conversazione. Qualche volta turbati. Più spasso lieti. Più fiduciosi e più arditi, quasi sempre.
Conobbi Papini, quasi impensatamente, in un modo assai semplice. Palmieri e Cicognani gli avevan parlato di me. Io amo la compagnia di Palmieri. Amo la sua esuberanza meridionale, la sua conversazione ricca di imprevisto. Conosce a fondo le letterature moderne. Scrive libri di critica, acuti e penetranti; ama sprofondarsi, direi quasi perdersi, negli scrittori che lo hanno formato; per es. Carducci, Papini e Borgese. I suoi libri sono sforzi di comprensione e ricostruzione. Questo meridionale trentenne, sembra che non si sia proposto altro fine nella vite, che quello di capire.
Ora, una sera che io scendevo giù per la Via Martelli con Enzo Palmieri, come giungemmo davanti alla Libreria Beltrami, (ivi si radunano tutti i letterati di Firenze, e quelli di passaggio da Firenze. Vi si può incontrare Pietro Mastri e Cicognani; vi capita spesso Montale; vi ho veduto qualche Fausto Maria Martini), come dunque giungemmo davanti alla Libreria Beltrami, Palmieri mi disse: «Salutiamo Papini».
Papini era là dentro e leggeva un libro. Alto e grande com'è, sembrava occupasse lui solo tutto lo spazio. E' miope, e per leggere affondava il naso e tutta la faccia nelle pagine intonse. Che cosa gli abbia detto Palmieri, non so. Ma a un tratto Papini si volse, e mi disse: «Ma noi ci conosciamo», e mi strinse la mano. Subito tutto l'affetto che io nutro da 20 anni per i suoi libri, sorse dentro di me, e si riversò su quell'uomo così alto. Subito mi piacque, e non poco, quel volto assai brutto, dai lineamenti così mobili e così espressivi; e mi piacquero gli occhi miopi, grigi e benevoli, dietro le lenti massicce.
Accompagnai Palmieri e Papini fino alla «Filosofica», in Via Ghibellina. Papini mi disse: «Mi venga a trovare». Qualche giorno dopo andai.
Mi ricevè in una grande sala piena zeppa di libri; una quantità dl libri da dar lo sgomento. E tutti sono in buon ordine negli scaffali appoggiati alle pareti, e gli scaffali son così alti che toccano il soffitto. Ce n'è in tutte le lingue, e trattano di tutti gli argomenti.
Egli parla con brevi frasi incisive, non si lancia in dimostrazioni; non sembra abbia la volontà di persuader chi lo ascolta. Gli basta affermare. Quello che dice rispecchia fedelmente il suo pensiero; è la verità, o quello che sembra a lui che debba essere la verità. Per questo la dice, ma anche per questo non la dimostra. Tanto peggio per chi ascolta, se non crede, o non capisce.
E' del resto molto cortese. Mentre parla, non fa che fumare. Ha sempre a portata di mano una scatola di sigarette. Ogni tanto, la mano si allunga verso la scatola; poi, lenta, porta la sigaretta alla bocca.
Tutti suoi atti sono lenti e pacati. Non tradiscono turbamento interno. Sembra che quest'uomo, che pure deve aver molto dubitato e sofferto, sia oggi arrivato al perfetto equilibrio, quella pace interiore, che è il nostro sforzo incessante, di noi tutti.
Egli è lo scrittore nato, e lo scrittore puro. Non fa che leggere e scrivere. Non credo sappia fare altro che leggere e scrivere. Ma non parla molto di se. Anzi, ne parla di rado. Molto parla dei libri che gli piacciono, e anche di quelli che non gli piacciono. Egli ha del resto un suo modo pittoresco di esprimersi, una tal chiarezza nell'impostare e risolvere i problemi, che ascoltarlo è un piacere. Sopratutto questo in lui mi ha sempre colpito. La straordinaria chiarezza con la quale parla: una precisione di termini quasi matematica. Segue e sviluppa il suo pensiero con un rigore di logica che ricorda le dimostrazioni dei geometri. Non divaga mai. Sa con poche parole definire un libro o uno scrittore così compiutamente, come forse non saprebbe fare un altro, con un grosso volume. E' questo, del resto, uno degli aspetti che rendono così attraente e così interessante la sua critica e la sua polemica. Io non potrò mai dimenticare la meraviglia con la quale lessi, qualche tempo fa, un suo articolo sulla Nazione, che parlava del Petrarca. Poche righe di quella sua prosa lucida e combattiva, definivano quella poesia con tanta penetrazione e compiutezza, che di botto io la rivissi tutta dentro di me, e soltanto allora mi parve di averla capita davvero.
Guido Manacorda è un asceta. Voglio dire che ha dell'asceta tutte le caratteristiche esteriori, e alcune di quelle interiori. Il volto pallido e emaciato, l'occhio profondo dove arde un fuoco difficile a sostenersi, una costante preoccupazione dell'«al dl là»; la volontà ferma ed eroica di non seguire e non ascoltare che lo spirito.
Lo dicono generoso, e certamente lo è. Un uomo che parla e che guarda in quel modo, un uomo che dice le parole che dice lui, che nutre quei suoi pensieri, non può fare a meno di esserlo. Ma forse, lo è senza sforzo.
Insegna letteratura tedesca alla Università di Firenze. E di tedesco è competentissimo. Ma io credo che potrebbe insegnare con uguale facilità, e con non minore padronanza, molte altre materie. VI parla con sicurezza che stupisce di letteratura italiana antica, e di antica letteratura francese. Ora credo sia sprofondato nello studio dei Padri della Chiesa. Certo vi parla di Patristica e di Tomistica con una ricchezza di vedute e una semplicità che ci abbaglia. Sia che siate profani, sia, e anche più, che siate competenti. Ma difficilmente lo sarete quanto lui.
Egli ha una bella voce calma e piana, una voce pacata, che vi turba un po', un modo di guardarvi diritto e ben dentro negli occhi, che vi impedisce di tentagli nascosto checchessia. Parla senza mai alzare il tono della voce, senza gestire, quasi senza moversi nella sua poltrona. C'è in lui qualche cosa che lo consuma; un fuoco nascosto e represso, una febbre che serpeggia non vista, forse una volontà sempre tesa, che sfugge alla indagine. Io non saprei dir che cosa è. So che scrive dei libri e parla di religione e dell'«al dl là».
Conversare con lui è una delle cose più attraenti che io mi conosca.
Anch'egli, come Papini, si esprime con una chiarezza, con una precisione di termini più persuasiva di qualsiasi eloquenza. Ma ama la dimostrazione; è difficile sentirgli emettere assiomi. Ama dire quello che crede, e perché lo crede. E' sicuro di se, del suo pensiero e della sua coscienza. Poco aggressivo, anzi espansivo piuttosto, gli piace, credo, comunicare agli altri quella sua convinzione. Non so se vi, riesca; ma non mi stupirebbe il successo.
La sua cultura è vasta. Non può essere confrontata che a quella di Papini, fra gli uomini che io conosco. Dirige la «Biblioteca Sansoniana straniera». Di tutti o quasi tutti quei volumi, egli, prima dl accettarli, ha confrontato col testo le traduzioni. E queste sono dallo spagnolo, dal tedesco, dall'inglese, dal norvegese, dal russo. Non so per questa ultima lingua. Ma certo possiede bene le altre. E' forse dalla abitudine di parlare il tedesco, che gli è derivato quel modo curioso di pronunciare la t? E' una t spiaccicata fra i denti, quasi masticata prima di essere emessa, una t ammollita e insieme indurita, che mi farebbe sorridere, se non fosse in bocca sua.
Mentre parla, io guardo le sue mani, bianche e sottili, le sue mani un po' strette e ricurve, il suo volto affilato, che sembra quello di un santo, in certi affreschi del '300; e penso che un santo non è, ma che certo egli ha in sè molte delle forze, e insieme delle commoventi debolezze, che formano la disarmonica vita di un santo. E lo vorrei quasi vedere lontano alla città, e quasi fuor della vita, in una campagna serena, in mezzo agli olivi, con tre o quattro cipressi nello sfondo; e là, vorrei dirgli: «Riposati; tu ne hai bisogno, o Maestro».
Enrico Barfucci è uno strano tipo di uomo. Non passa quasi giorno che io non lo veda, e non parli un poco con lui. Eppure in parte egli è ancora un enigma, per me.
Scrittore, non ha scritto che due piccoli libri; ma sono pieni di contenuto, densi, ricchi di succo come frutti troppo maturi; basta stringerli un attimo, e il succo cola giù da tutte le parti.
Sono libri di un contemplatore fattivo, di un mistico che ama vivere la vita di tutti i giorni, di un pensatore che riflette molto, ma lo fa in mezzo al tumulto di una esistenza dove è anche troppo il daffare. Vi si trovano frasi come queste: «Eroi siamo noi, che camminiamo sul filo di una spada, e ci fermiamo sul taglio, potendo gioire del pericolo e del dolore». E: «Non concepisco altra verità che quella che si inspira a Dio e all'Eroe, cioè a due principi attivi, uno dei quali si impone per la maestà del mistero, l'altro per la viva e presente opera creativa...». E poi: «Eroica è l'anima umana, innalzata alle vette della poesia attiva; specie di ala spirituale, che valica i monti della volgarità, ostinatamente chiusi intorno allo spirito...». E anche: «Disprezzo gli uomini, perchè sono nato con la religione dell'Uomo».
Questi libri procedono così, per piccole frasi, ognuna delle quali esprime compiutamente l'anima complessa di chi le ha scritte.
Contemplatore, e tuffato nella vita pratica, nella vita attiva, nella vita di tutti i giorni. Pensatore e organizzatore. E' lui che ha organizzato e diretto l'Ente per le Attività Toscane, La Fiera internazionale del Libro, il Congresso Etrusco, e ora prepara, con G. Cocchiara, il Congresso delle Tradizioni Popolani. E' merito suo se questi organismi vivono e son fattivi. Tutte le manifestazioni più interessanti che si sono avute a Firenze dopo la guerra, sono opera sua. Sono uscite dal suo cervello e dalla sua volontà. Sembrerebbe che non dovesse far altro che organizzare, costruire nella vita pratica. Ma come dunque ha potuto scrivere quei due piccoli libri, così pieni di fede e di pensiero?
Il fatto è che Barfucci è un poeta. E, caso raro, un poeta che ha voluto tradurre in realtà le forze del proprio spirito. Uomo di cultura e di studio, le sue costruzioni non potevano essere che culturali; uomo intelligente, non potevano essere che vaste e universali. E' cosi che son nate la Fiera del Libro, il Comitato permanente per l'Etruria, il Comitato Nazionale per le Tradizioni Popolari. E' sopratutto quando la intelligenza attua se stessa in organismi che rispondono così compiutamente ai nostri bisogni morali, che si capisce quanto essa sia benefica. Tutte le cose buone che ha la vita, non è forse la intelligenza che ce le ha date? E forse il Male non è altro che la stupidità. Se dovessi fare un ritratto del Diavolo, lo farei cieco e imbecille. E non per nulla noi chiamiamo Dio la Intelligenza Suprema.
Firenze fu sempre ricca di intelligenze. Queste delle quali ho parlato, sono di puro stampo fiorentino.
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