Articoli su Giovanni Papini

1934


Giuseppe Molteni

Gianfalco

Pubblicato in: Pro Familia, anno XXXV, fasc. 5, p. 77.
Data: 4 febbraio 1934




   La bibliografia intorno alla vita e all'opera di Giovanni Papini è vastissima: in Italia e all'estero moltissimi sono i critici e gli storici che se ne sono occupati: tra i lavori più comprensivi usciti tra noi basti ricordare quelli del Prezzolini, del Palmieri, del Fondi, del Pellizzi. Ma ora l'autore della «Vita di Cristo», del «Sant'Agostino», di «Gog» e del «Dante vivo» ha trovato il suo più ampio e diligente biografo in Alberto Viviani, che gli ha dedicato un grosso volume di quasi cinquecento pagine, Gianfalco (Firenze, Barbèra, 1934), tutto pervaso dì vibranti e accesi sensi dì ammirazione, che tolgono alle pagine ogni ardita freddezza di critica, ma finiscono con lo scivolare nel panegirico, dandoci un ritratto tutto sfolgorante dí luce, senza ombre e penombre, sminuendo con ciò stesso l'efficacia persuasiva del suo racconto.
   L'entusiasmo ammirativo del Viviani è tale da fargli scrivere: «Gianfalco, tra le altre leggende s'è tirato dietro anche quella di uomo brutto. Non voglio far intendere con ciò ch'egli sia un Adone perchè le fotografie o i disegni si incaricherebbero subito di smentirmi, ma intendo dire che la sua bruttezza non è di quel tipo che la gente volgare e superficiale classifica comunemente per brutto. Le donne che sono passate nella sua vita potrebbero — se volessero — darmi ragione. Per godere e capire la bellezza di quest'uomo che a volte appare come un arcangelo, bisogna conoscerlo, avvicinarlo, amarlo soprattutto. E' solamente allora che si ha la impressione intera ed esatta di quanto egli sia più bello dei cosiddetti belli, come la sua sia infine l'unica e vera bellezza». Qui l'assolutismo encomiastico del biografo può farci sorridere; in qualche altro caso esso può sembrarci di assai minore buon gusto, come allorquando, nel primo capitolo dedicato al 1881, l'anno della nascita del Papini, si compiace, per ragioni di contrasto, a definire quella data come l'espressione della volgarità e mediocrità dell'Italia del tempo, a porre in rilievo le quali «ci si misero un po' tutti: dal più alto cittadino all'ultimo, dal Pontefice al demagogo più in vista, dai governanti verbosi ai più valorosi soldati». Tanto più sconveniente l'allusione alle «geremiadì di Leone XIII il quale ad ogni pìè sospinto si dichiarava prigioniero della rivoluzione», in quanto queste «geremiadi» erano specialmente determinate dagli eccessi delle violenze anticlericali, culminate nelle scene vergognose verificatesi in occasione della traslazione della salma di Pio IX, eccessi e vergogne che lo stesso Viviani ricorda e deplora con giuste parole di sdegno.
   Ma l'appunto che si può fare, sorvolando sulle quisquilie particolari, e considerando la diffusa e particolareggiata biografia da un nostro punto di vista generico e complessivo, è questo. Tra il Gianfalco dì ieri e il Papini di oggi non vi è un abisso? Questo non è la negazione diquello? L'apologia di Saulo è forse il modo migliore per tesserci la vita di Paolo? Noi sappiamo che Gianfalco è lo scrittore del Leonardo, della Voce e dí Lacerba, lo scrittore che nel programma appunto del Leonardo alzava la bandiera di un gruppo di giovani che si proclamavano: nel pensiero «personalisti e idealisti cioè superiori ad ogni sistema e ad ogni limite, convinti che ogni filosofia non è che un personale modo dì vita, negatori di ogni altra esistenza fuor del pensiero» e nella vita «pagani e individualisti, amanti della bellezza e dell'intelligenza, adoratori della profonda natura e della vita piena, nemici dí ogni forma di pecorismo nazareno e di servitù plebea». Noí sappiamo che la storia di Gianfalco è stata tutto un lungo errare, ansioso e impetuoso, di errore in errore, di falsa dottrina in falsa dottrina, nel liberalismo filosofico più sfrenato, dal pessimismo all'idealismo, dal pragmatismo al modernismo, dallo scetticismo al futurismo, finché, giunto a quello stadio supremo di nichilismo interiore che egli stesso analizzava così potentemente in «Un uomo finito» (analisi che faceva pensare all'apostrofe di Barbey d'Aurevilly a Baudelaire, dopo I fiori del male: «Non vi resta che inginocchiarvi innanzi al Crocifisso, o tirarvi un colpo di rivoltella»), la Grazia non gli toccò il cuore e gli illuminò la mente, trasformando il Gianfalco ribelle, esperto di tutte le più opposte é diverse esperienze intellettuali, insofferente di freni e di dogmi, in un uomo nuovo, che del vecchio Adamo serbava necessariamente, nel temperamento polemico e nella genialità paradossale dell'ingegno e nel carattere da «uomo salvatico», non pochi tratti incisivi, ma spiritualmente e dottrinalmente del tutto diverso, anzi con quello in pieno e perfetto antagonismo.
   Ora, il Viviani, ha il torto di seguire le varie fasi dell'errabondo pellegrinaggio papiniano attraverso la sterminata dìstesa dell'errore filosofico, sempre in atto di devota ammirazione, col plauso più fervido e incondizionato. Il Papini, molto opportunamente, nella ristampa delle sue opere — l'Opera omnia che il Vallecchi sta attualmente pubblicando — alcune ha ripudiate, altre ha convenientemente chiosate; ma il nostro biografo, oltre ad arrestare il suo racconto alla soglia della conversione e al momento — 1919 — in cui si accinge a scrivere la «Víta di Cristo», non ha sentito le esigenze naturalmente derivanti da quella soluzione di continuità, da quell'hiatus, da quella catarsi, anche per quanto si riferiva a quella prima fase della vita e dell'opera dello scrittore fiorentino.
   Il Viviani nota che nel «lungo vagabondaggio tortuoso che lo ha fatto il combattente irrequieto di tutte le idee, di tutte le filosofie, l'ebreo errante di tutti i paradossi» si può tuttavia scorgere un filo conduttore, un motivo dominante, «costituito dalla sua perenne sete dì verità, dalla sua febbrile ansia di assoluto e di eterno, dal suo insonne e nostalgico desiderio di Dio». Questo è vero; e sta in ciò anzi il pathos del dramma spirituale del Papini, della sua crisi d'anima. Questa sua corsa affannosa, questo suo continuo tormento intorno al vecchio problema « quid est veritas?» può e deve suscitare il nostro rispetto e la nostra fraterna simpatia anche per Gianfalco; ma né l'una né l'altro possono far tacere i doverosi rilievi e le necessarie riserve che Gianfalco esige, non agli occhi nostri soltanto, ma a quelli dello stesso Papini di oggi.


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