Giovanni Papini a dieci anni dalla morte
Pubblicato in: I diritti dlla scuola, anno LXVII, num. 12, pp. 21-22
(21-22)
Data: 15 marzo 1967
21
COME si prospetta la figura di Giovanni Papini, oggi, a dieci anni dalla sua morte? Che cosa rappresenta la sua opera stratificata nel terreno di questo secolo tempestoso, che ha visto la società sconvolta da due immani, catastrofiche, apocalittiche guerre mondiali? Non è facile rispondere alle due domande, in un senso strettamente storico e critico, dal momento che tutto un processo di revisione dei valori umani, estetici, morali, religiosi, filosofici investe i nostri giorni inquieti, perfino drammatici, con il galoppare delle scoperte tecniche e scientifiche, dei rivolgimenti politici, che sopravvanzano il lento cammino compiuto nel settore della meditazione e delle esperienze psicologiche e artistiche. Il secondo conflitto bellico ha posto sul tappeto, da! 1945 in poi (appena la pace potette ridare una certa calma ai superstiti), problemi spirituali di imprevedute conseguenze, perché crollo dei regimi sociali, che si ritenevano stabili, il trapasso da un ordine costituito all'altro in formazione, precario e vacillante, hanno fortemente inciso sulle coscienze, stimolando nuovi interessi mentali, predisponendo le anime a vivere crisi profonde, inasprendo e irritando il dissidio esistente fra vecchie e giovani generazioni, padri e figli, entrambi disorientati e angosciati. L'arte e la letteratura subivano scosse inaudite; e già Papini, nei suoi ultimi anni, andava registrando, con uno sgomento infinito, il distaccarsi dei ventenni e trentenni dai simboli eterni, assoluti, del mondo in rovina. Anche con noi, Papini si confidava e si addolorava nel constatare che i sopravvenuti non gli testimoniavano affetto e attaccamento; egli si sentiva isolato, anche se poi molti amici anziani gli fossero intorno, premurosi e rispettosi. Ma, nel dopoguerra burrascoso, mentre i valori teorici e tradizionali dirupavano vertiginosamente, un po' tutti gli autori famosi, da D'Annunzio a Croce, da Pirandello a Soffici e a Papini, si vedevano accantonati e respinti. Oggi, addirittura, con l'irrompere turbinoso delle neo-avanguardie e degli «sperimentali» ed «informali», gli anzidetti scrittori sono dimenticati e ricacciati in soffitta. Il gusto, le inclinazioni e le tendenze culturali dei giovani, i loro slanci e le loro preferenze non hanno nulla da vedere con la visione della vita o Weltanschauung, che gli uomini di ieri portarono nelle loro opere miranti alla perfezione, all'armonia e alla sublimità, mentre ì loro ideali venivano contenuti in rapporto alle esigenze individuali non cozzanti e in attrito con le linee della misura classica e dell'equilibrio morale. Fra il mondo passato e quello presente si scava un abisso invalicabile.
Papini, fin da giovane, nei suoi furori iconoclasti, dionisiaci e satanici, nella sua sete inesausta di apprendere e conoscere, rimaneva fedele ai criteri di una saggezza antica, che andava rinnovata, non rinnegata. Mentre lo scrittore fiorentino sognava conquiste sconfinate, doveva dopo ripiegare su se medesimo per ricredersi e magari per confessare i suoi riposti sentimenti, che erano sgorgati con immediatezza lirica. Un uomo finito è il suo libro giovanile più spontaneo ed umano, perché denunzia la vera, inconfondibile Stimmung dell'autore deluso e sconfitto spiritualmente. Sentirsi pervenuto sulle soglie di un fallimento è anche un riconoscere che l'esistenza dì un uomo non può appagarsi interamente dell'egoismo, che si esaspera in crude esperienze soggettivistiche e narcisistiche. Papini faceva l'inventario non tanto della sua delusione, che lo contrariava e addolorava, quanto della sua disponibilità di poeta e di uomo alla ricerca di inconsuete norme vitali e spirituali. In fondo, lo scrittore avvertiva il bisogno improcrastinabile di ancorarsi a credenze davvero salde e durature. Il suo «luciferismo», come hanno detto tanti critici, non ha, per noi, un lato negativo: esso rimane un vivo interesse etico di Papini, che muove alla conquista di Dio. Chi si dibatte e dispera, senza una necessità pratica, senza uno scopo preordinato, è già sulla via di Damasco. La scontentezza papiniana rappresentava il veicolo di conquista della fede concreta ed assoluta. Un uomo finito anticipa la conversione, prepara lo stato d'animo, che sfocerà poi nella Storia di Cristo. In questo senso, Papini aveva sempre «creduto». Si diceva che egli odiasse gli uomini (e le sue «Stroncature» potevano far pensare ciò); in effetti, egli amava i simili. Le condizioni del Cristianesimo erano implicite nelle smanie che Papini avvertiva come richiami del divino e della Provvidenza, che lo guidava nei suoi passi avventati, se vogliamo, ma diretti al raggiungimento di una dimensione culturale capace di arricchire
22
e nobilitare l'esistenza. Trascinato dai suoi impeti, Papini aderiva ad una nozione compiuta dell'arte; ebbe a combattere tenacemente tutte le forme letterarie, che si disfacevano e disumanizzavano, senza alcun rimedio. Vedeva il nuovo associato al destino della lingua tersa e tintinnante, identificava la Poesia con la categoria del bello e dell'euritmia classica. Le sue prose risultavano nitide e sicure, le «Schegge», tanto sobrie e succinte, accordavano fra loro il dato psicologico e morale con l'accento di pura musicalità. Il moralista si accompagnava con lo scrittore e lo aiutava nel suo itinerario e nel suo lavoro immaginativo e riflessivo.
La spia del mondo
Se leggiamo, ancora oggi, le poesie di Papini, specie quelle dedicate alle figlie, possiamo subito cogliere, in esse, un fresco profumo della natura che sì desta nei suoi stupori mattutini, nel suo incanto favoloso. L'uomo erudito, di vastissima preparazione dottrinaria, di profondo acume critico, trovava anche il modo di abbandonarsi completamente ai doni sorprendenti della fantasia. «Occhi belli delle mie figliuole / così luminosi nelle giornate sole... / Occhi grandi delle mie bambine / così piccine che guardate tutto in tondo / alla scoperta del mondo». Il poeta osserva la figlia, Viola, nei suoi movimenti, trepida e volante, e ogni tempesta interiore si placa; l'amore paterno lo riempie di una dolcezza senza confronti, ed egli può altresì dimenticare gli affanni quotidiani, le delusioni e le amarezze del vivere in società. Sono esemplari le sue pagine gremite di riferimenti culturali e di immagini poetiche. L'arguzia si mescola con l'ironia sottile e penetrante, il diagramma lirico si dilata nei suoi motivi polifonici e sinfonici. Apriamo il volume La spia del mondo e leggiamo: «Tutte le mattine, appena l'alba imbianca il grigiore della strada, sì vede in faccia a casa mia, appoggiata al muretto dì un giardino, una coppia di amanti. Lei è bassa, non giovane, quasi gobba, e nulla ha di bello al dì fuori dell'evidente ardore del suo sentimento verso il compagno. L'uomo è ancor più brutto e più vecchio di lei, simile a un operaio suburbano che scende di mala voglia in città per lavorare e che prima di recarsi al suo cantiere si intrattiene con quella specie di sguattera furibonda che gli parlotta di continuo all'orecchio. Tutti e due sono volgari, odiosi, sudici, malvestiti eppure tutte le mattine, sia che piova, sia che la neve minacci, sia che il cielo sia più trasparente di uno zaffiro, essi son lì appiccicati insieme senza curarsi di chi passa e dì chi guarda, soli nel mondo come due animali invecchiati nella fregola».
Il senso del brutto e del macabro, che talvolta sconfina nel surreale, e che i poeti «maledetti» primamente, a cominciare da Poe e Baudelaire, utilizzarono nelle loro opere (dopo furono, gli Scapigliati milanesi a battere sul chiodo dell'orrido e del grottesco), venne da Papini proiettato nella dimensione narrativa: Gog costituì l'esempio più alto della disposizione di Papini a raccontare per approssimazioni satiriche, che deformavano la realtà e la effigiavano in uno scenario mosso e popolato di maschere e caricature, di tipi e simboli, che facevano pensare a Goya. Il meglio di Papini è da ricercare non tanto nelle opere a sfondo polemico ed apologetico (sebbene queste testimoniamo del carattere passionale ed esplosivo del saggista toscano, indotto a interpretare gli accadimenti storici e culturali in relazione al configurarsi degli autori in funzione di uomini radicati nel tempo) , quanto nelle composizioni riposate, con impegno inventivo e stilistico. Del resto, molte cose di critica (ritratti di poeti, monografie dì filosofi, presentazioni di santi, esigui ritagli riservati a personalità storiche) assumono importanza e risalto in forza del raccontare vivido e spigliato di Papini.
Papini è stato un moralista, di ispirazione cattolica, non meno efficace e datato di Chateaubriand. Eppure, lo scrittore italiano non avrebbe scritto, come quello francese, un libro solamente per convertire l'Italia. Papini era più inclinato alle forme letterarie e meditative, non ammirava, alle maniere di Mauriac, calorosamente e incondizionatamente,
Il Cristianesimo è vitalità dirompente, altruismo, amore che sì rinnova e diviene continuamente. L'apologetica papiniana si distacca dalla dottrina che fa capo sia al Giansenismo, di indirizzo razionale e cartesiano, e sia all'idealismo assoluto, nel suo originarsi dalla Critica kantiana.
◄ Indice 1967
◄ Francesco Bruno
◄ Cronologia