Articoli su Giovanni Papini

1984


Antonio Pantano

Boccioni-Papini: un cerchio mai chiuso

Pubblicato in: www.secoloditalia.it
Data: 28 febbraio 1984




Esattamente 70 anni fa’, in questi giorni, esplose sulla famosa rivista fiorentina “Lacerba” la polemica, assai feroce, tra Papini e Boccioni. L’avvenimento ebbe risonanza e assunse all’epoca grande importanza. Le conseguenze furono forse di maggior rilievo di quanto possa essere apparso in un primo tempo. I personaggi scatenanti e coinvolti erano all’apice del ribollente movimento culturale italiano, che non ebbe eguali da allora in avanti. Perché, e ciò va detto con rammarico, menti e genii creativi come Papini, Boccioni, Marinetti Prezzolini, Balla, Severini, Carrà, Sironi, Sant’Elia, non hanno avuto eguali, in Italia, successivamente.
Ma vediamo come andarono le cose.
A Firenze, ove i fermenti culturali erano assai intensi, si pubblicava sin dal 20 dicembre 1908 “La Voce”, che, fondata e diretta da Prezzolini, volle essere un punto di raccolta di “giovani di culture, origini e provenienza diverse per formare la nuova generazione attorno ad un principio di moralità intellettuale superiore”. Secondo gli scopi prefissi, a “La Voce”, collaborarono uomini e personalità di varie origini ed estrazioni, e quelli di maggior rilievo furono, oltre Prezzolini: Papini, Soffici, Salvemini, Missiroli, Amendola, Romolo Murri, Croce, Slataper, Gentile, Sorél, G.A.Borghese, Silvio D’Amico, Emilio Cecchi, Piero Jahier, Ildebrando Pizzetti, Ferdinando Martini, Mussolini, Margherita Sarfatti, Pareto, Enrico Settimelli, Renato Serra, Luigi Einaudi, Umberto Saba, Stefano Jacini, Egilberto Martire, Nello Quilici, Vincenzo Cardarelli, Giuseppe de Robertis, Riccardo Bacchelli, Roberto Longhi, Romain, Rolland, Paul Claudel, André Gide, Corrado Govoni, Sibilla Aleramo, Luciano Folgore, Apollinaire, Carrà, Alberto Savinio, Ungaretti, Enrico Pea.
“La Voce” concluse le sue pubblicazioni il 31 dicembre 1916, in piena guerra.
Ad un certo punto della vita della rivista, Papini, Soffici, Palazzeschi e Tavolato, sentendosi troppo “compressi nella Voce”, che aveva dato maggiore spazio alle questioni pratiche, sociali, economiche, pedagogiche e morali, trascurando forse quelle artistiche, diedero vita a “Lacerba”, che uscì il 1° gennaio 1913 e non ebbe, ufficialmente, direttori sino a tutto il 1914. Ma il n° 24 del secondo anno, datato 1° dicembre 1914, riportava in prima pagina, sotto la testata, una dichiarazione programmatica dal titolo “Lacerba è sempre viva”, nella quale, oltre ad annunciare la nuova cadenza settimanale a partire dal 1915 ed il dimezzamento del prezzo (da 4 a 2 soldi), specificava:
“Nell’anno che comincia non abbandoneremo il nostro programma di svecchiare l’arte e il pensiero con la negazione de’ principi e degli uomini sorpassati e colla rivelazione di forme e di forze nuove ma daremo molto posto alla vita di tutti i giorni, alla politica nazionale, a quella che si chiama in gergo giornalistico, l’ “attualità”.
… Giovanni Papini… assumerà col 1915 la direzione della rivista…
Il primo capitolo sarà dedicato al RE – verranno poi quelli sul Papa, sulla Chiesa Cattolica, sul Parlamento, sull’Esercito, sulla Burocrazia, sull’Alta Banca, sulla Grande Industria, sugli Ebrei, sulle Università, sui Grandi Giornali, sulle Riviste, sugli Studenti, sui Socialisti, sui Repubblicani, sui Nazionalisti, sui Clericali, sui Radicali, sui Contadini, sulla Provincia, sulle Capitali Italiane, ecc.
Il nostro differenziamento dal Futurismo non c’impedirà d’iniziare o difendere i più arrischiati movimenti d’arte e nella teoria e avremo sempre con noi un bel gruppo di poeti e d’artisti di tendenze modernissime ed avanzate…”
. Questa dichiarazione andrà tenuta presente per la fine dell’episodio di 70 anni fa’ che andremo a rievocare.
“Lacerba” fu “la rivista più importante ed avanzata che si pubblichi nel mondo”, e quella che, come nessun’altra, “negli ultimi tempi ha dato prove di tanta vitalità ed ha iniziato tante campagne per un rinnovamento radicale della letteratura, dell’arte, del pensiero, della politica”. E già allo scadere del secondo anno di vita poteva vantare la pubblicazione di scritti di Papini, Soffici, Palazzeschi, Lucidi, Tavolato, Altomare, Auro D’Alba, Bétuda, Buzzi Cangiullo,Cavacchioli, Folgori, Govoni, Jannelli, Marinetti, Campana, Barbaro, Agnoletti, Distaso, Jahier, Apollinaire, Daubler, De Pruraux, Jacob, Mac Delmare, Nevinson, Roch Grey, Remy de Gourmont, Volard, e musiche di Agnoletti, Bastianelli, Pratella, Russolo, e scritti e disegni di Archipenko, Boccioni, Carrà, Cézanne, Gerebzova, Picasso, Rosai, Sant’Elia, Severini, Zanini. Quindi le pubblicazioni nel 1915 proseguirono, sotto la direzione di Papini, fino alla immediata vigilia dell’entrata in guerra dell’Italia, cioè fino al 22 maggio.
Sin dal suo terzo numero, del 1 febbraio 1913, “Lacerba” aprì le sue porte al futurismo divenendo, con l’articolo di Papini “il significato del Futurismo”, la palestra ideale per quegli artisti d’avanguardia, audaci oltre ogni immaginazione. In quel lungo e polemico scritto di ben 20 paragrafi Papini trattò il Futurismo nei giusti termini, senza farne l’apologia, ma costatando che esso, “vuol tirare addietro l’Italia da quella adorazione del passato che la inceppa e l’isterilisce” e più avanti sostenne che “specie per merito dei suoi pittori, ha fatto vedere fuori di qui che anche in Italia c’è qualcuno che tenta di rimettersi in pari colle ricerche spasmodiche degli ultimi cinquant’anni – e magari di sorpassarle”. E concludeva: “Noi possiamo rimproverargli moltissimi difetti – abusi della réclame frastornante; ottimismo fanciullesco quanto il pessimismo che respinge; scelta troppo indulgente dei compagni; poca novità e consistenza del fondo dottrinale ecc. – e prevederne alcuni pericoli – retorica da chauffeurs; cattivo gusto inutile; possibilità di una nuova massoneria intellettuale ecc. – ma che dobbiamo riconoscerlo alla fin delle fini come l’unico movimento italiano d’avanguardia, come l’unico gruppo di gente di fegato pronta ad affrontare sghignazzate e cazzotti in nome del libero lirismo, come l’unico centro di ingegni volontariamente scappati dalle mollezze e dalle compiacenze della buona e santa tradizione. Ad esso posson guardare con simpatia e cordialità tutti quelli che non hanno perduto sé stessi nelle contemplazioni dei monti athos della storia”.
Marinetti ebbe aperta la strada de “Lacerba”, e per ciò offrì immediatamente a Papini di tenere un discorso a Roma, al teatro Costanzi (l’opera odierna) il 21 febbraio 1913, discorso che fu accolto nel prevenuto clima antifuturista dell’epoca, con schiamazzi, urla, contrasti clamorosi, e che Papini concluse in questo modo: “Bisogna uscire una buona volta da questo mare morto della contemplazione, adorazione, imitazione e commemorazione del passato se non vogliamo diventare davvero il popolo più imbecille del mondo”.
L’affiancamento di Papini al Futurismo, dal quale teneva a mantenere garbate distanze, fu sempre più intenso e manifesto in successivi appassionati articoli su “Lacerba”, mediante i quali invitava gli italiani a cercare di “leggere” le proposizioni di quegli audaci disinteressati artisti d’avanguardia, senza condizioni protesi verso un “nuovo” veramente originale.
Boccioni inzia la sua collaborazione a “Lacerba” sul n°6 del 15 marzo 1913 con l’articolo “Fondamento plastico della scultura e pittura Futurista”, affiancato dal famoso “Adrianopoli assedio orchestra” di Marinetti e da liriche di Folgore, Govoni, Palazzeschi e due scritti di Carrà e Tavolato. Ormai la partita futurista su “Lacerba” era aperta.
Va detto che “Lacerba” era un periodico molto seguito, ricercato, al punto tale che dopo sette mesi dovettero esser ristampati i primi cinque numeri, che furono venduti, insieme, a lire due e cinquanta, al prezzo cioè di un libro.
Il Futurismo, anche sulla scia del successo di “Lacerba”, ottenne sempre maggiori entusiastici consensi. E la fusione tra gli ex vociani ed i futuristi divenne completa facendo della rivista l’organo del movimento d’avanguardia; su di esso apparvero incessantemente scritti, musica, disegni, opere futuriste.
Papini, che con Soffici era il vero “padrone” del periodico, il 1° dicembre 1913 nell’articolo “perché son futurista” per 4 pagine fece accanita, ma razionale, professione di fede futurista, concludendo che “Futurismo significa Italia…più degna del suo avvenire…più moderna, più avanzata… Il poco più vivo di questa Italia è, oggi, tra i Futuristi ed io mi compiaccio e mi vanto d’esser andato e di rimanere con loro”. E il 12 dicembre insieme con Marinetti, Cangiullo, Boccioni, Carrà, Soffici, Tavolato, Scarpelli al teatro Verdi di Firenze è l'anima di una incandescente grande serata futurista nel corso della quale esporrà con la sua voce stentorea la famosa invettiva “Contro Firenze” che concluderà: “Se avremo la forza di buttar giù gli scenari pietrosi del nostro ostinato vecchiume, di allargare le nostre strade; di rinnovare la nostra vita, di strafotterci dei barbari che invadono le nostre case e di buttar in Arno i professori, i portieri di musei, gli eruditi, i dantisti, i cruscanti e gli altri schifosi passatisti che hanno qui il loro nido, Firenze non sarà più la graziosa città medioevale meta di tutti gli snobs del mondo, ma diventerà una grande città europea, e ritornerà, come nel quattro e nel cinquecento, ad essere il centro più attivo e più incendiario dell’intelligenza italiana”. Inutile dire che al termine di tutti gli interventi dei futuristi vi fu caos indescrivibile, volar di pugni, aggressioni, urla, intervento della forza pubblica.
Il 1914 vede “Lacerba” ormai traboccante di scritti futuristi.
Nel secondo numero, del 15 gennaio, Papini chiude il suo articolo “Il passato non esiste” con dichiarazioni valide per tutti i tempi: “Il genio che vive come noi, che mangia e beve accanto a noi, ch’è discusso dai critici e invidiato dai prossimi, non ci sembra genio”. E più avanti: “…gli uomini hanno una schifosa tendenza a riconoscere la grandezza soltanto di quelle opere e di quelle anime che sono lontane nel tempo…Noi troviamo che questo modo di fare è una sudicissima infamia. E protestiamo con tutto il nostro fiato. E siccome codesta gente in lega – critici rinsaccatori e usurai con artisti pappagalleschi e tradizionalisti – questa ingiustizia imbecille la chiama culto del passato, noi, diremo eternamente MERDA”.
In tale clima di tensione il 15 febbraio 1914 Papini esplose con l’articolo “Il Cerchio si Chiude” che, nella prima e seconda pagina di “Lacerba”, intendeva analizzare il punto di stasi, a suo avviso, al quale il movimento futurista era approdato e, con calcolata angelicità, costatava che le ricerche in pittura di Picasso, Severini e Boccioni, in letteratura di Marinetti, in musica di Russolo, il programma in filosofia sono tutti istradati su un cammino di rinunzia e di suicidio, quindi: “si tratta di sostituire alla trasformazione lirica o razionale delle cose le cose medesime”. Per ciò se questo sta accadendo, perché accade, “il mare dell’invenzione sembra tutto esplorato e si sta per sbarcare da un’altra costa sulla terraferma da cui s’era partiti. Ci ritroviamo di fronte alla prima materia.
Il cerchio si chiude. L’arte ritorna realtà; il pensiero si riabbandona nell’azione”
.
Papini era consapevole d’aver lanciato un sasso nell’acqua, ma aveva trascurato che seppure i cerchi risultanti sarebbero stati chiusi, le onde prodotte dal sasso, allontanandosi e diffondendosi, avrebbero fatto sfuggire al controllo del suo occhio cerchi che certo non si sarebbero chiusi. Cercò comunque una conclusione al pezzo: “come vedete, cari amici, il mio spiritaccio loico scompaginatore non vuol lasciarmi in pace. Ma chissà ch’io non scriva apposta, per mettervi una pulce nell’orecchio e farvi cantare”, e promise: “ e se ci cascate starò a sentirvi e sarò felice una volta di più”.
La scintilla era scoccata.
Va ricordato che si era nel 1914. Nell’aria s’erano accumulati minacciosi giganteschi fermenti. Già sette anni prima il solitario profeta Alfredo Oriani aveva previsto: “La tragedia non potrà mutare : invece dei re i popoli rappresenteranno sulla scena se stessi, e la voce dei poeti salirà da petti più ampi. Accendete tutte le fiaccole : l’alba è vicina. Il suo rossore somiglierà forse a quello del sangue, ma è sorriso di porpora, che balena dal manto del sole”. L’anelito alla indipendenza delle nazioni non era più un sordo brontolìo. In arte gli svolgimenti del Cubismo, ma soprattutto quelli più arditi e clamorosi del Futurismo, avevano risentimenti così profondi che tutta la vita sociale ne era scossa. L’Europa era scorsa da un fremito : la guerra mondiale lampeggiava dietro l’orizzonte.
Boccioni, di pasta e tempra ben diversa da quella di Papini, che giorno per giorno si era formato per dubbi sconvolgenti, timori di fallimenti totali, angosce altalenanti, ma risolute consapevolezze di saper pensare, dire e , soprattutto, creare qualcosa di grande,Boccioni reagì. Egli non aveva passato la adolescenza a divorare libri in biblioteca, consumando gli occhi al lume di tremule steariche per placare la sete d’apprendere, torturandosi l’animo per non abbastanza sapere, Boccioni aveva avuto una adolescenza mediterranea, lampeggiata dagli entusiasmi e dalle infatuazioni tipiche del suo tempo, non intristita dalla indigenza ( che, se pur presente, non lo angustiava), aveva amato le donne senza mai disprezzarle, aveva scazzottato i nemici degni di tal nome per poi abbracciarli in un successivo impeto allorquando capiva che gli antagonisti avevan da dire cose ch’egli voleva conoscere, Boccioni aveva percorso le strade dell’Europa per “vedere” e filtrare attraverso la sua sensibilità ciò che gli altri avevano fatto e per poter lui, a modo suo, “fare”. Si era anche inchinato al pragmatismo razionale di Papini, ma, da buon romagnolo nato in Calabria e formatosi lungo tutta l’Italia, oppose a quello il costante anelito di ricerca, di studio, unito alla sua consapevole fermezza creativa. Della sua arte, in assoluta generosità, doveva fare “messaggio” per coloro che non capivano e non sapevano o, abbagliati da cattive abitudinarie tradizioni, non riuscivano a ragionare oltre le tradizione vetuste. Per ciò Boccioni scontra il suo animo aperto, solare, impetuoso, con quello becero, petulante, corrucciato, sofista, fiorentino di Papini. E reagisce senza mezzi termini.
Con l’articolo “IL CERCHIO NON SI CHIUDE!” pubblicato il 1° marzo 1914 sul numero de “Lacerba” successivo a quello dell’articolo di Papini, Boccioni rinfaccia a questi di non aver capito, anzi di aver dimenticato due principi fondamentali della sensibilità futurista: “1 – I mezzi di espressione artistica tramandatici dalla cultura sono logori e inadatti a ricevere e ridare le emozioni che ci vengono da un mondo completamente trasformato dalla scienza. 2 – Le nuove condizioni di vita in cui viviamo hanno creato un’infinità di elementi naturali completamente nuovi, e per ciò mai entrati nel dominio dell’arte, e per i quali i futuristi si prefiggono di scoprire nuovi mezzi d’espressione, ad ogni costo ! …. Non si possono trovare in arte nuovi elementi emotivi senza tornare direttamente alla realtà.
Tu hai invece scambiato i nuovi elementi della realtà che vengono portati nell’arte per subire nel tempo la loro fatale elaborazione, per un ritorno alla materia bruta. Confessa che hai preso un granchio, o che almeno hai gridato come un senatore qualsiasi: “la libertà va bene…Ma dove si va a finire, con questa libertà?”
. Poi una serie di rimproveri circostanziati, immersi nella analisi, stringata, dei punti fondamentali del Futurismo, prima di concludere con parole premonitrici anche per noi ed il nostro tempo: “La scienza ci ha condotto ad una specie di barbarie superiore, per la quale l’artista futurista sente di procedere in un mondo ignoto di fenomeni nuovi che anelano di uscire dall’anonimo naturale. E’ per questo che lavoriamo!
Noi futuristi siamo dei barbari superiori e abbiamo in noi la ferocia e l’estasi per le sconfinate conquiste che sentiamo preparate alla nostra rapacità ambiziosa”
. Boccioni chiude salutando, ma sin dal titolo si presagisce il futuro del suo sodalizio con “Lacerba”.
Papini, che usa cervello e penna in sincronismo perfetto, accusa il colpo ed è costretto a replicare il 15 marzo 1914, nel n° 6 di “Lacerba” con la lettera intitolata “CERCHI APERTI “ indirizzata a Boccioni, al quale rinfaccia: “Il dire che il mio articolo è “indegno di me e della prima pagina di Lacerba” è grottesco”. Toccato nel vivo, rammenta che “Lacerba” è casa sua e, reagendo, rimprovera ai futuristi di aver assunto un tono dogmatico “da chiesa” e non da artisti rivoluzionari. Indica “fanatismo e scolastica alla moda antica” la determinazione dei futuristi e, pur riconoscendo l’esistenza del genio plastico di Boccioni, gli rimprovera la mancanza di “esprit de finesse” causata dal suo slancio creativo “napoleonico”. Ammette di aver posto in buona fede un argomento sul tavolo e di non esser stato seguito nella discussione su basi serene (dimenticando che il suo solito polemismo sarebbe stato preso sul serio, come sempre), e si trincera dietro la citazione di Picasso che nei giorni precedenti, a Parigi, gli aveva rivelato di usare l’arte “più per divertimento che per altro” (genuina confessione di Picasso che ha sempre legato al “divertimento” il risultato economico). “Gli elementi di realtà sono adoprati come materie nuove a preferenza delle vecchie e senza ombra di realismo (come vuol Picasso, e come pensiamo noialtri) oppure perdono il loro carattere di realtà particolare entrando a far parte di un insieme artistico (come tu confusamente sostieni) – oppure si son messi là al posto degli oggetti che si dovrebbero rappresentare (come io temevo e come accadde in alcune opere da me citate)?”
E nel rammentare la concordanza su certi punti che qualche volta Boccioni sembra voler dimenticare: “la libertà assoluta, il rischio, la ricerca azzardosa e senza regole, il disgregamento di ogni mito, l’ateismo integrale, l’immoralismo, il cinismo anche in fatto di soldi” gli rinfaccia una tendenza al “reale” e “all’ordine”, alla stabilità, al definitivo, alla costruzione, al classico” che lo ripugna.
E chiude la lunghissima lettera con parole concilianti per assumere un atteggiamento comprensivo.
Ma la tempesta incombe con cariche nuvole minacciose. E anche se su quello stesso numero di “Lacerba” sono pubblicati un disegno ed un dipinto di Boccioni e, come primizia, alcuni capitoli del suo nuovo libro “Dinamismo Plastico”, pubblicato a Londra (al quale Papini non ha lesinato strali sottili nell’articolo citato), il tuono prorompe dietro il lampo accecante.
Boccioni non scriverà più su “Lacerba”.
Papini aprirà il n° 8 del 15 aprile 1914 con l’articolo intitolato “Anch’io son borghese” per confermare che “anche oggi ho dato un altro ceffone alla mia agonizzante borghesia”; ma per ammettere che la lezione l’ha appresa e che gli è difficile barare, è costretto a rivelare la sua legge: “ogni uomo ha il dovere di apparire, diventare ed essere il contrario di quel che è per nascita, natura e destino… Cinico, scettico ed immoralista, disordinato crudele e irregolare: ecco le qualità che deve conquistarsi chi nacque borghese, chi crebbe borghese e chi sente il disgusto della sua quotidiana invincibile borghesia”. Papini ha toccato il tasto giusto. Latente c’è sempre in ciascuno degli uomini di ingegno, ma non di genio, il grande problema: essere il contrario di quello che si è per nascita. Una condizione umana che pesa su Papini, pensatore e forse innovatore, ma non eroe.
Il cerchio chiuso di Papini non incontrerà mai più la linea aperta del cerchio di Boccioni. Questa linea si proietterà verso orizzonti lontani e di gloria. Le opere di Boccioni supereranno i confini e, con le sue idee, entreranno nelle pagine importanti della storia.
Con la sua sensibilità Boccioni sentirà incalzare i tempi nuovi e la loro cruda atroce affascinante bellezza. Nella apoteosi dei suoi colori, della sua esplosiva centrifuga arte plastica, egli fa intravedere i futuri progressi della scienza: l’arte sua quasi li precede.
Marconi, Fermi, Von Braun, potrebbero esser suoi fratelli, come lo sarebbero (e lo sono) stati Strawinski e Pound, grandi innovatori. Nel 1914 il Socialismo perde Mussolini, Papini a Firenze usa “Lacerba” per incitare, futuristicamente, alla guerra, ormai divampata in Europa. D’Annunzio e Corridoni, anche sulla scia delle pagine lacerbiane e mussoliniane, conducono per mano la giovane incerta Italia verso il drammatico balletto del conflitto europeo. Papini assiste al dramma anche da lui voluto (il suo fisico non gli permette la partecipazione), ma il suo animo inquieto è sempre tormentato. Continuerà in una sofferta, dolorosa, costante ricerca della verità. L’approdo al Cattolicesimo, la tarda adesione al Fascismo, l’Accademia d’Italia, sono tappe fondamentali della sua vita angosciata e solitaria; vita che si addice a chi sa soffrire perché vuol capire.
Chi non volle chiudere il cerchio, lasciandosi dietro le spalle fama e grandezza meritate, che il tempo riconoscerà, dopo aver scatenato tensioni nell’arte e nel vivere civile – esponendosi in prima persona e pagando puntualmente tutti i debiti – inciampò nella fatalità del destino, dopo aver combattuto senza timori in prima linea, in un punto dove l’Adige, in vista di Verona, incontra un distaccamento militare denominato Sorte, ove una puledra bizzarra, da lui chiamata Vermiglia (quanto egli seppe usare i colori e quanto questi delimitarono la sua vita!), volle il 16 agosto del 1916 stroncare il futuro sognato di Umberto Boccioni.


◄ Indice 1984
◄ Antonio Pantano
◄ Cronologia