Un avvertimento alla critica cattolica: G. Papini Un'anima intera
Pubblicato in:: Studium, anno 95°, fasc. 5, pp. 755-760.
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Data: settembre - ottobre 1999
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«C'è sempre in me la sete del Divino, la fame dell'Assoluto e di più, costante, insistente, la fase del primato dello spirito sulla materia, dell'anima sul corpo» 1.
Questa dichiarazione di fede dello stesso Papini, costantemente ricorrente in tutta l'opera, basterebbe da sola a suggerire questa riproposta di un intellettuale raffinato e tormentato, di un artista inquieto, che conobbe e suggerisce «il fascino del disordine» e «il rimorso dell'ordine», del poeta che provò e comunica il brivido delle vette, la solarità delle contemplazioni, la dolcezza delle concentrazioni assorte nei silenzi dell'io.
La Religione dello Spirito nell'era della computerizzazione; la certezza dell'Assoluto sia nelle scansioni di ansia di ricerca sia nelle ebrezze della conquista sia nelle sicurezze del possesso, in un mondo su cui incombe la morte dell'Assoluto. Si sintetizza qui il significato primario dell'attualità di Papini.
«Non dimenticare Papini», è l'appello che Ferdinando Castelli nel 1977 lancia dalle colonne de La Civiltà Cattolica 2.
Papini-Borges-Rimbaud: «Je est un Autre». A buona ragione, nel frontespizio dell'ultimo volume di Carmine Di Biase: Giovanni Papini. L'anima intera (1999) per le Edizioni Scientifiche Italiane di Napoli, si riporta un frammento di Borges: «Sospetto che Papini sia stato irnmeritamente dimenticato», dopo uno stralcio da Le felicità dell'infelice dello stesso Papini: tanto quanto basta ad orientare il lettore, fra controversie, polemiche, curiosità aneddotiche e
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letterarie, verso una corretta interpretazione di un intellettuale difficile che nel confuso panorama letterario del primo Novecento, accanto a Rebora, Betocchi, Turoldo, si fa specchio dell'inquietudine del suo tempo, all'ombra delle battaglie di Frontespizio.
«V'è una sola libertà: quella del proprio necessario sviluppo. Il seme è libero ma soltanto di trasformarsi in albero. Ognuno di noi è libero ma solo per diventare ciò che nella sua originale essenza era già» 3.
L'affermazione che l'uomo è sempre se stesso e con una sola vera libertà, quella del proprio necessario sviluppo, alla cui radice è l'uomo di sempre che già era, all'origine, nella sua essenza, è la certezza di fondo, etica ed estetica, che aiuta a ritrovare e a ricomporre l'anima intera di Papini, fra ebbrezze di esaltazioni e prostrazioni di scoramenti, attraverso la rilettura globale dell'opera tutta intera.
L'8 luglio del 1956 Papini moriva: «Sempre più cieco, sempre più immoto, sempre più silenzioso. La morte non è che immobilità taciturna nelle tenebre. Io muoio dunque un po' ogni giorno a piccole dosi, secondo il modulo omeopatico. Ma io spero che Dio mi concederà la grazia, nonostante tutti i miei errori, di giungere all'ultima giornata con l'anima intera» 4.
È quanto tenta nel ponderoso e superbo volume citato Di Biase, che ripercorre per intero l'opera di Papini e l'impegno del suo tempo, nel fervore del suo vítalismo prodigioso di uomo, letterato, pensatore, artista e poeta fin nell'ultima fase, «intima», del ripiegamento interiore, per ricostruirne «l'anima intera», sulle premesse teoriche della sua stessa Weltanschauung e della sua poetica. Con rigore filologico, con dovizia di informazioni e di documentazioni, con il supporto sempre dei testi, il critico perviene a livelli notevoli di risultati, che sono il prodotto anche dí una meditazione costante sull'autore, maturata nel tempo e concretatasi in una serie di interventi critici e saggi; sorretta da una sintonia simpatetica critico-scrittore, fra partecipazione e distacco, che si giustifica in un critico cattolico dell'Otto-Novecento quale Di Biase, che è autore anche di studi pregevoli su La letteratura come valore (1993) e la Letteratura religiosa del Novecento (1995). Un libro dotto, questo, ma non professorale né accademico, di ben 515 pagine, che si snoda in cinque densi e ricchi capitoli saggi: Il pilota cieco, Il testimone, La poetica, Il saggista, La giustificazione, fra un'introduzione sulla vita e sull'opera: L'anima intera, intensamente programmatica, ed una postfazione: Bilancio critico,
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puntuale ed esaustiva, in cui, con la misura che gli è propria, Di Biase si autocolloca nel panorama critico, definendo, con chiarezza puntigliosa, motivazioni, intenti, finalità delle sue scelte.
Una metodologia severamente storico-filologica che, sensibilmente, lascia spazio all'interpretazione lirico-estetica, in particolare nella rilettura di Papini intimo e della sua poesia. Qui il critico rivela tocchi di delicatezza e di levità, così come, nella penetrazione di Papini pensatore, dimostra uno spessore di dottrina filosofica e di cultura, idonee ad illuminare la profondità del pensiero del Rapporto sugli uomini e de La giustificazione. Un libro questo, perciò, di filologia e di poesia, di filosofia e di arte; è retto in unità dalla passione del ricercatore che indaga per scoprire e che pertanto si smarrisce — lui stesso consapevole — negli incanti lirici e nelle nostalgie del Bello. Un'immedesimazione critico-scrittore? Il risultato è una lettura fruibile ed emotivamente fresca, nonostante tutto, che ha il fascino dell'opera aperta: aprire percorsi, sollecitare stimolazioni, senza indicare conclusioni. Ciò non per dissentire, quanto per comprovare l'analisi dotta e ricca di Castelli, nel suo recente saggio 5, di un tocco interpretativo, forse, liricamente femminile.
Dimenticato del tutto, invero, non può dirsi Papini. Basterebbe pensare, fra í tanti, agli studi di Baldacci e di Bo, al recupero di Gog, ai prestigiosi «Meridiani» Mondadori in dieci volumi, di cui uno è già alla quarta edizione. Lo stesso centenario ha, senza dubbio, fornito nuove indicazioni. Allora, quali i limiti? E quale la singolarità dell'operazione critica di Di Biase? La critica finora si è mossa fra due posizioni dominanti: l'una attenta al «primo» Papini, l'altra all'«ultimo» Papini, restando ferma ad uno dei momenti, ovvero facendo di uno di essi il punto di riferimento per la rivisitazione globale. Il rischio è il condizionamento o il riduttivismo. «Tra queste due posizioni quella di Bo (l'ultimo, l'altro Papini) e di Baldacci (il primo Papini) che pure non intendono essere limitative, si muove un po' tutta la critica che o resta ferma ad uno dei due momenti o ne fa un punto di riferimento per riconsiderare l'opera intera dello scrittore. Col rischio però di non rivederla in se stessa e nella dinamica interezza, ma in qualche modo condizionata da un punto di vista esclusivo di partenza o di visuale» 6.
L'intento — che a noi pare realizzato — di Di Biase è riscoprire l'interezza della spiritualità di Papini nella globalità della sua testimonianza di vita fino a L'ultima, allorché, anche bloccato dalla
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cecità, continuò a lottare e a sperare di cambiare il mondo, dimostrando soprattutto la sua grande coerenza, pur nella contraddittorietà, e la sua lezione di fedeltà a se stesso. Basterebbe la presenza ricorrente, nei suoi scritti, di Anima e la stessa dimensione agostiniana di tempo.
«Io sono — per dir tutto in due parole — un poeta e un distruttore, un fantastico ed uno scettico, un lirico ed un cinico. Come queste due anime possano stare insieme e trovarsi bene, sarebbe troppo lungo a descrivere. Ma veramente questo è il fondo dell'anima mia» 7. È questa la misura critica della figura umana ed artistica di uno scrittore-Poeta che si interroga sul Divino ma stando dalla parte degli uomini, che cerca Dio già nelle dissacrazioni eversive da cui muove per arrivare a stringere gli uomini in un abbraccio di fratellanza universale, in cui assolve e perdona e salva tutti, anche il diavolo. È l'uomo che si sente finito, perché avverte la sua finitudíne, ma non trova l'Assoluto; è il convertito che l'attivismo, l'individualismo, l'associazionismo vive con pari intensità, alla luce della visione dell'arte-testimonianza ed apostolato per gli altri e cerca una «giustificazione» in rapporto con gli altri, che sono gli uomini tutti. Un Papini che si fa e si sente difensore e confessore dell'uomo in una sorta di medioevale moderna «universale giustificazione». Si deduce, da questi cenni, quanto complessa sia stata la fatica di Di Biase. Se l'intento di recuperare la verità umana ed intima, nella sua interezza, di Papini può dirsi riuscita è perché il rigore metodologico del critico e il suo abito di rigorosa onestà intellettuale gli consentono un modo di approccio serenamente laico, ovvero laicista, che lo aiuta ad organizzare le riflessioni morali ed estetiche e le intuizioni dí Papini in una sorta di «sistema» che del sistema non ha la scientificità, ma costituisce un prezioso vademecum quale supporto dell'indagine critica deideologizzata quanto appassionata. Una ricerca di scavo interiore, che irradia nuovi flash sul Papini «irregolare» e schiude orizzonti luminosi sul Papini «surreale»: entrambi non più dimidiati quanto piuttosto unificati nella comune dimensione di quell'eroismo etico cui egli restò fedele fino all'ultimo. Ritrovi così, ma in tutta la produzione, non solo in quella ultima, e lo gusti il mistero dello stupore dell'immenso, l'incanto delle cose e degli affetti semplici in un Papini intimo che coesiste con quello titanico. Parimenti, un punto fermo si pone nella storia della conversione che non compare d'improvviso, ma sí prepara lentamente nella sofferenza della religiosità laica di sempre che è ricerca dell'Assoluto.
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«Io sono un uomo per cui il mondo intero esiste e credo che la cultura della nostra anima debba essere l'occupazione più importante per chi vuole essere uomo e più che uomo» 8.
8 G. Papini, Campagna per il forzato risveglio, in Leonardo, 1906, in Opera Omnia, cit., vol. VII, pp. 33-35.
Papini già nel 1906 scriveva con questi accenti. È in questa linea unitaria che si recuperano pregi e difetti, sui quali Dí Biase obbiettivamente non tace: piuttosto, i difetti si dimostrano nascere dai pregi: «l'infecondo dilettantismo» e il «dongiovannismo intellettuale» sí ritrovano in quell'aspirazione costante al Tutto-niente che nasce da quella visione dialettica che abbiamo definito categoria etico-estetica: la vita, perenne dialettica, l'arte postulazione «di altro», ovvero «l'autre», il «diverso». È qui il senso unitario della vita, del pensiero e dell'arte in cui si risolve la contraddittorietà e dell'uomo e dello scrittore e che pone all'attenzione il ponderoso impegno dell'operazione di Di Biase.
«Io trovai cento e mille verità ma non trovai la Verità. Conobbi tutti gli aspetti della certezza e in nessuno il mio cuore volle addormentarsi». È questa problematica l'aspetto più inquietante e suggestivo di Papini che Di Biase è riuscito a cogliere e a comunicare. Sono qui le ragioni più vere della riproposta dell'attualità di Papini, ragioni esistenziali, squisitamente spiritualistiche in un mondo senza anima.
L'8 agosto del 1956 così scriveva don Giuseppe De Luca, alla morte di Papini:
«Papini ci mise addosso le febbri più pericolose, che non sono quelle della carnalità subdola o sfacciata, quelle di carriere lucrose o stemmate, quelle di scuole superiori medie inferiori, quelle di sine cura fastose. C'inculcò il veleno della poesia a dispetto di ogni poetica, del pensiero a dispetto di ogni filosofia, della vita viva fuori delle professioni di vita, della politica fuori dei proclami d'azione [...]. Debbo a lui alcune tra le ore più meridiane della mia giovinezza spirituale. Debbo a lui se ho preso certi studi che non hanno da noi cattedre né premi. [...] Debbo a Papini le più sane desolazioni, l'ardire più risoluto, la mia inviolata solitudine» 9.
Ebrezza di vita e richiamo all'interiorità: in questo contrasto categorico la ragione del fascino della sua voce, tutto agostiniano: «In te ipsum redi, in interiore homine habitat Veritas».
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Note a piè di pagina
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