Leonardo

Fascicolo 4


Parola e Immagine *
di Giuseppe Antonio Borgese
pp. 4-5
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Il poeta trae dalla parola l'immagine.
G.DI
HUMBOLDT


Molti poeti celebrarono la parola e la dissero divina. È giusto che l'artiere lodi il suo strumento. Altri invece mostrarono disdegno verso questa impura veste, entro cui doveano costringere i più liberi sogni; la veste sembrò logora, falsa, misera. Gli empirici, per cui non v'è questione insolubile, risposero che il linguaggio è, come tutte le armi, ottima per chi sa maneggiarla, vile per gli inetti. E in questa affermazione del comune buon senso è qualche cosa di non fallace; giacchè l'empirismo, piuttosto che nel dar false risposte, pecca nel credere di rispondere alle domande più gravi, mentre le elude.
   Esaminiamo brevemente e semplicemente che cosa sia la parola in bocca degli uomini comuni, degli uomini di scienza e dei poeti. E seguirò anch'io l'ottimo metodo di coloro che pensano al fanciullo 1 quando vogliono ridurre un fatto alla sua primitiva semplicità.
  Pensiamo che ad un bambino, quasi completamente ignaro del linguaggio qualcuno faccia notare un pesco e gl'insegni che quello si chiama albero. Ora, se dopo qualche tempo il medesimo bambino vede un ciliegio e lo chiama albero, egli esprime con questa parola la sua intuizione di una somiglianza tra la pianta che egli vede ora e quella che imparò a chiamare albero. Questa parola, pronunciata nel secondo caso, racchiude in sè un confronto: l'oggetto che io vedo ora è come quello che vidi or non è molto. La parola è l'espressione istintiva della percezione di un'affinità: è un'immagine.
   Il pesco è il tipo, a cui egli ha confrontato il ciliegio. Ma il tipo non rimarrà immutabile. Quando il bambino vedrà un terzo albero, probabilmente gli darà questo nome, senza confrontarlo al pesco, ma piuttosto al ciliegio che egli ha veduto da minor tempo e che lo ha colpito per la sua maggiore robustezza, o ad un terzo tipo formato per sovrapposizione e confusione dei due primi. Poiché dobbiamo escludere che il bambino abbia in mente un tipo irreale, costituito dai caratteri astratti dell'albero.
   Questo tipo irreale non appartiene che allo scienzato. Ma, via via che il bambino avrà compiuto un numero sempre maggiore di simili confronti, ci riuscirà sempre più difficile di determinare il tipo concreto a cui egli paragona il nuovo oggetto. Se fosse possibile una repentina illuminazione dei processi subcoscienti, il bambino che ho immaginato saprebbe dirci quale era il suo termine di confronto, quando chiamava albero il ciliegio; l'uomo comune si troverebbe imbarazzato non solo a dar la definizione logica dell'albero — che questo può solamente l'uomo di scienza — ma anche a descrivere che cosa è per lui l'albero. La molteplicità delle visioni e dei carattteri che si sono .presentati ai suoi sensi via via ch'egli ha esteso il nome albero a una maggiore quantità di oggetti ha sitfattamente gravato queste sillabe di significazioni inarmoniche e contraddittorie che non corrispondono a nessun contenuto preciso e definibile. Chiedete ad un bambino che cosa sia l'albero; egli vi risponderà: questo, indicandovi un albero. Chiedete ad un uomo ignaro di scienza che cosa sia l'albero: egli distinguerà taluni casi: può essere albero di frutta o albero di bosco, può spògliarsi nell'inverno o rimaner verde e così via. La risposta del bambino, l'immagine singolare, sarà per lui insufficiente; per la risposta dello scienziato, l'astrazione logica, è immaturo. Nella sua bocca la parola diviene un mezzo di comunicazione; non è il segno, l'astrazione logica, ma la prepara, non racchiude l'immagine, ma la presuppone soltanto.
   Come mezzo di comunicazione, è però imperfettissima. Finchè si tratta del Monte Rosa o del Gran Sasso tutti li chiameranno montagne, ma se l'altura è di soli sette o ottocento metri non vi sarà chi la dirà colle e chí poggio e chi montagna? Ora, poichè la parola è un segno convenzionale, il suo significato deve essere circoscritto entro limiti precisi. Così sorge per opera e per uso della scienza il vocabolario. Il popolo usa la parola pesce: vediamo quali cose esso indica con questa parola. Esaminiamo i caratteri di esse, togliamo quelli individuali lasciando solamente i comuni a tutti o almeno alla maggioranza, e determiniamo: chiamasi pesce quell'oggetto che possiede i seguenti caratteri. Senza di questo processo la scienza sarebbe impossibile. Ma è utile osservare che con questo processo s'è fatto quello che molti chiedono oggi ad alta voce: la lingua artificiale; si son fatte anzi molte lingue artificiali.
   Ogni uomo ha certamente un suo linguaggio particolare perché -- citerò un solo criterio di questa diversità — differisce dagli altri per i limiti entro i quali applica i sostantivi generici. Giacchè l'applicazione di un nome a un nuovo oggetto avviene in seguito ad un inconscio confronto di esso con un tipo instabile, variabile e indefinibile. L'applicazione d'un nome ad un oggetto nel linguaggio scientifico avviene invece per via più razionale: per il confronto dell'oggetto ad un tipo irreale, ad un insieme inesistente di caratteri astratti. Ma come sono stati scelti questi caratteri? un oggetto ha infiniti caratteri: per compiere dunque la sintesi di parecchi oggetti con l'eliminazione dei caratteri comuni, bisogna prima fare la scelta dei caratteri da esaminare, scelta a priori buona per l'individuo che la fa ma priva di valore assoluto. Inoltre, se vogliamo conoscere i caratteri comuni di tutti quegli animali che il popolo chiama pesci, ci troviamo di fronte a parecchie difficoltà. L'anguilla, p. e. da taluni sarà chiamato pesce, da altri serpente: dovremo studiare anche i suoi caratteri per arrivare alla definizione della categoria pesce? o dovremo ricorrere al relativo criterio della maggioranza, chiedendoci se la maggioranza la chiami pesce o serpente? Anche se volessimo, ci troveremmo nell'impossibilità di ottenere una risposta sicura. Quando poi avremo compilato alla meglio la lista degli oggetti che vanno comunemente sotto questo nome e la lista dei caratteri da esaminar secondo un criterio puramente personale, elimineremo i caratteri non comuni, lasciando alla categoria da definire solamente i caratteri universali. Se nonchè, i nomi diventerebbero a questo modo privi quasi interamente di contenuto logico. Quand'io ho studiato il drago nel mito popolare e ho voluto dare una definizione che comprendesse tutti i mostri indicati nelle varie novelle con questo nome, non ho potuto dare al drago altro carattere generale che questo: il drago è una enorme bestia divoratrice. Così se volessimo trovare i caratteri comuni a tutti gli esseri che s'intendono comunemente col nome di pesce, difficilmente arriveremmo a trovarne più d'uno: il pesce è un animale che vive abitualmente nell'acqua. E che dire del nome uccello, quando ben pochi uomini non colti saprebbero fare una differenza tra gli uccelli e i chirotteri? che della parola frutto, quando nell'Italia Meridionale con la espressione frutta di mare si designano i molluschi commestibili? La definizione onninamente comprensiva sarebbe più verace, ma non servirebbe in nulla alla scienza.
   Così questa nella definizione delle parole deve ricorrere per una seconda volta al criterio empirico della maggioranza, e dà il nome di uccello o di frutto a quegli oggetti, che hanno i caratteri comuni alla maggioranza di quegli oggetti che comunemente si chiamano uccelli o frutta. Dopo tante traversie la parola, che prima era un segno ma individuale spontaneo e presupponente un confronto con qualche cosa di reale, è divenuta un segno convenzionale sicuro e preciso, ma a costo della sua stessa esistenza: essa equivale ormai ad una cassetta in cui si dispongono alcuni oggetti per non smarrirli, ad una lettera dell'alfabeto sotto cùi si ordinano i libri per ritrovarli: potrebbe senza nessun danno essere sostituito da un geroglifico. O meglio, da una lingua artificiale, che a tutti i pregi di precisione e di semplicità che ha oggi ogni lingua scientifica, aggiungerebbe una maggiore indipendenza.
 Giacché ogni lingua scientifica è artificiale, benchè si serva delle parole preesistenti. La parola pesce, benchè costituita dagli stessi suoni, ha per lo scienziato un valore ben differente che non abbia per l'uomo comune (a cui, in realtà il linguaggio appartiene). Difatti lo scienziato deride l'ignorante che chiama pesce la balena — mentre l'ignorante potrebbe dirgli che egli ha perfettamente ragione a darle il nome di pesce e che è stato proprio lo scienziato a cacciare arbitrariamente la balena dal consorzio in cui il popolo l'aveva messo, e solamente perché gli avrebbe impedito di aggiungere alla categoria pesce l'attributo oviparo. Ha fatto bene lo scienziato, come creatore di un linguaggio artificiale e ordinatore di cognizioni, a decretar


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l'ostracismo alla balena; ma chi non pretende usare un linguaggio artificiale, sibbene il suo linguaggio naturale, potrà in Italia continuare a chiamar pesce la balena, dovrà in Germania continuare a chiamarla Wallfisch.
   Abbiamo considerato il valore della parola nei suoi tre momenti: sulla bocca dì un fanciullo per cui rappresenta una conoscenza 2, un confronto, un'immagine; sulla bocca dell uomo comune per cui il confronto è divenuto macchinale ed incosciente, il tipo non si presenta più alla fantasia nel momento del paragone e la parola s'avvia a divenire un segno ancora senza precisione e rigidità; infine nella definizione dello scienziato o nel teorema del geometra, in cui l'evoluzione s'è compiuta e la parola è un puro segno logico.
   Ora che cosa sa il poeta, in quanto è poeta, della parola? ìn che modo la rende divina? come trae dal mot il verbe?
   Egli le rende la sua verginità.
  La parola ritorna in bocca al poeta come espressione dí conoscenza, come immagine. Le sillabe che noi usavamo per comunicare con noi stessi e coi nostri simili, riassumono un valore di rivelazione. Il geroglifico, il segno logico rinnovato di nuova vita ci svela l'affinità delle cose diverse, ci fornisce dunque l'unico vero mezzo che noi abbiamo per la conoscenza, non essendo tutti gli altri che ordinatori e coordinatori. Non dissero altri che il poeta riporta le nostre anime allo stato di grazia, che esso vede e far vedere le cose come se fossero nuove, che è un grande fanciullo? Queste definizioni io accetto nel senso che ad esse danno le mie premesse, e troppo mi spiacerebbe che la parola fanciullo risvegliasse nella mente di taluno qualche dubbia psichiatrica, degenerativa, atavica, et similia. Io ho pronunciato la parola fanciullo, pensando che solo nei primissimi anni noi conosciamo le cose ed il mondo, poi non facciamo che ordinare sistemare e catalogare le nostre conoscenze per i scopi pratici. Se dico che il poeta è un fanciullo e fa gli altri fanciulli intendo solamente dire che egli conserva l'attitudine a guardare il mondo con meraviglia e a notare affinità insperate.
   E perciò la parola si mantiene fra le sue labbra piena di significazione reali e profonde.
  Chi m'ha seguito potrà facilmente arricchire di esempii infiniti le mie affermazioni e capirà molte cose dell'arte; capirà, per esempio, perchè sia tanto difficile render poetica una parola volgare e plebea, perché in altri termini sia difficile rendere la verginità....... alle femmine da conio, perchè invece i poeti amoreggino talvolta con le parole arcaiche e preziose, perchè soprattutto le parole puramente scientifiche ed astratte sembrino stare a pigione fra i bei versi. Io citerò un esempio, con cui spiegherò che cosa intenda per questa resurrezione dei cadaveri verbali operata dal poeta. Se pensiamo ad uno che per la prima volta abbia detto dolce un eloquio, non disse egli un'immagine, non rivelò una sua impressione mostrandola affine ad un'altra, al piacere del palato? Ma se oggi taluno dice: egli parla dolcemente, noi non notiamo l'immagine: essa è puramente presupposta dacchè la parola dolce fu convenzionalmente collegata al parlare armonico. Orbene, se il poeta, se Omero non dirà che l'eloquio d'Ulisse è dolce, ma che è dolce più del miele egli ci fa ricordare che la parola dolce presuppone un'immagine e la risuscita, facendoci pensare col confronto del miele alle voluttà del palato. Vi è più immagine se alcuno oggi parla di capelli aurei? È un'immagine oramai fissata, stilizzata — morta; noi pensiamo solamente ai capelli biondi, non all'oro. Ma se il poeta dirà: capelli d'oro fino, egli con l'ultimo aggettivo avrà restituito la vita all'immagine morta.
   E questo spiegherà a chi voglia riflettere come non una capricciosa smania di novità ci faccia sorridere a certe vecchie espressioni, - come la pallida luna i zefiri soavi, i tramonti porporini, se sono oggi ripetute, ma la loro vacuità per colpa del lungo uso che ha ucciso l'immagine. Talvolta un poeta riesce con una sola trasposizione a farci apparir sublime un'immagine, che nel consueto ordine ci sembrava barocca e meschima.
   Scomponendola, le ha tolto la rigidezza funerea. Ed i suoi mezzi, se egli è grande, sono infiniti per queste rievocazioni d'oltretomba. E la parola sarà divina o plebea, sarà ricca o stecchita, sarà verbe o mot secondo la potenza del suo soffio. Ogni parola villipesa dall'uso comune o inscheletrita dalla scienza, porta nel suo seno un'immagine, rassomiglia a Peau-d'àne, la bella principessa sotto le spoglie immonde. Il poeta, il principe innamorato saprà vederla ignuda.


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