Leonardo

Fascicolo 9


Il Pascoli minore *
di Giuseppe Antonio Borgese
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«Ma vieni, ma sali!
Ma lancia nel sole il tuo grido!»


I

   L'ULTIMA foglia che cade, un battito d'ala, un trillo, una lacrima, un rintocco sono le Muse familiari di questa poeta; la sua fronte è curva, come quella delle persone dolorose; i suoi occhi sono forse così gravi di pianto che male sosterrebbero la grande luce del cielo, sì ch'egli guarda più volentieri le stipe che gli alti frassini e meglio si compiace dei forasiepe che degli aironi. Ascolta i rivoli ed i fringuelli, ama le paranzelle e le granate con curiosità amorosa; ma non s'appa dalla visione che non sia sentimento, e, se nè fa compne dei suoi grandi dolori e delle sue piccole contentezze le piante e gli animali nè si lamenta della loro indifferenza, pur le fa vivere d'una vita simile alla sua. Non è ìl poeta, come già il Petrarca ed il Leopardi, che fa di sè il pernio dell'Universo, che lo sa o lo vorrebbe partecipe delle sue lacrime e dei suoi sorrisi: il Pascoli non fa vivere la natura della sua vita, ma pur sempre dei suoi sentimenti. Le campane, gli arbusti, le cinciarelle e i rondinini non soffrono delle sventure domestiche del poeta, ma come lui sono umili, dolci e compassionevoli soprattutto.
   Sentimenti miti ed umani, visioni brevi di una natura non truce e non sublime, ma vicina per la dolcezza elegiaca ai suoni dí campane e alle tenerezze tristi care all'anima del poeta, dominano il primo e il più recente volume di Giovanni Pascoli, le Myricae e i Canti di Castolvecchio. E tutti sanno, perchè il poeta stesso l'ha detto, quali casi della sua vita non avventurosa gli facciano guardare con occhio così tristo ed amorevole tutte le creature e gli suggeriscano moti d'animo che tutti si dicono con la parola pietà. Altri forse, colpito dalle medesime sventure, sarebbe impazzito per disperazione, altri avrebbe perseguitato gli uomini con l'ira o con l'ironia; ma e vano chiederci, come molti critici farebbero, perchè mai nel Pascoli le miserie e le tristezze infantili abbiano generato sentimenti dolci e passivi.
   Le analisi più perfette delle cause nella storia e delle anime nell' arte conducono tutte a un medesimo risultato, non troppo prezioso in verità: che così fu perchè così doveva essere.
   Le origini della sua poesia nei casi della sua vita ha cercate e ha dette il Pascoli; ma non tutte le origini delle cose nostre sono in noi. Il Pascoli è un poeta originale: questo dicono tutti, e dicono bene, perchè altrimenti non sarebbe un poeta; ma non v'è artista, che, scientemente o no, non abbia tratto alcuna parte dei suoi tesori da quelli che lo precorsero. E, se da tanti e tanti anni non si proclamasse che il romanticismo è chiuso da un pezzo nella sua tomba illacrimata e se per cento volte non avessero i giornali e le riviste commemorato il tale o il tal'altro come l'ultimo dei romantici, io direi che nel Pascoli vediamo la più recente e una delle più complete e genuine apparizioni del romanticismo italiano.
   Dicano pure quei faciloni, i quali con un benigno sorriso manzoniano risolvono tutte le controversie negandole, dicano che non esistono nè romantici né classici e che i romantici non proclamarono alcun principio che i grandi poeti d'ogni tempo non avessero — pur senza coscienza — seguito e i classici non difesero nulla, che i grandi poeti romantici nella loro arte disconoscessero. Chè io per romanticismo non intendo le norme e le idee proclamate da quei filosofi e da quei poeti che inventarono la parola, ma quella particolar maniera di considerare l'uomo e la natura e quel tono di sentimento che fa tutti, o quasi, fratelli i poeti fioriti in quell'età.
   — Uomini — parevano essi dire, e tutti similmente — voi sognaste la signoria della ragione e aveste l'ardire di credervi padroni del destino. Or ecco che voi creaste la libertà e l'eguaglianza, e dalla libertà e dall'eguaglianza sorse il conquistatore. E il conquistatore cadde, ma non per mano vostra, o uomini liberi ed eguali: i vostri vecchi tiranni l'hanno abbattuto. Come presumeste tanto delle vostre piccole forze? Pure i vostri, í nostri sogni eran grandi. — Questo parvero dir tutti e similmente; ma non tutti conclusero al modo istesso. Chè, mentre pochi ebbero forza di ridere — e fu riso amaro, e, nel ridere, spesso parvero digrignare i denti — degli altri chi disperò, chi disse che non i sogni erano assurdi, ma i mezzi e che il secolo decimottavo, assalendo il Cristianesimo, non si accorse di sconoscere quella fede che da diciotto secoli proclamava la libertà e l'eguaglianza degli uomini. Taluni poeti furono cosi vasti che a volta a volta passarono dall'uno all'altro sentimento. Ma l'Italia non ebbe voci così ampie; ebbe, sì, nella disperazione e nella rassegnazione le voci più profonde e più pure, quello che in un'opera breve e precisa fissarono la negazione e l'affermazione del romanticismo meglio che i turbinosi ed incomposti poeti stranieri: l'Italia ebbe il Leopardi e il Manzoni.
   Questi, sebbene così diversi per profondità d'animo e sebbene reputati vessilliferi dì due scuole nemiche, si spiegano l'un con l'altro, come nel grande flusso di pensieri che agitò quell'epoca, lo sconforto e la negazione ci fa intendere il misticismo e la fede. Del Foscolo non parlo, chè egli, pur non immune dalle tendenze della sua generazione, fu più vasto (non dico se più grande e più profondo) e dell'uno e dell'altro e creò una poesia che ha in sè la sua unità, in sè la sua negazione e la sua affermazione: questo Ione d'Italia custodì, quasi solo, la nostra più alta tradizione, e, come parve il più legittimo erede di Dante, a me par colui che ha annunciato il Carducci ed aperto la strada alla nostra grande poesia, nuova.
   Il Pascoli deriva dal Manzoni. Già, nel poeta degli inni, altri notò che il Cristianesimo, in quanto è soprannaturale, quasi non esiste. Non vi è il miracolo, ma solo il sentimento; non v'è tanto Iddio quanto il fedele. Non troviamo nel Manzoni il Dio presente e possente dell'antico testamento; la divinità è solamente ammessa, presupposta, come negli Evangeli. La pia femminetta, i casti vecchi, le spose e i fanciulli occupano quasi interamente la fantasia del poeta; ma pur sempre è il sentimento religioso, è l'occulta presenza della divinità — se così potessi dire — che li unisce esteticamente. Il Manzoni canta gli uomini fratelli, ma fratelli in Dio. Orbene, a queste femminette e a questi fanciullini, a queste umili cose e a questi tenui sentimenti togliete Iddio, togliete la loro unita ideale; noi avremo il Pascoli.
   Togliere Iddio? Non è solamente questo; poichè, sparito Iddio, sparisce anche la rassegnazione, la tranquillità, la tenue gioia che la fede nel Signore e, più che nel Signore, in Maria, dà spesso alle mamme ed ai bimbi del Manzoni. Senza Iddio, che cosa è in quelle umili creature, se non miseria e lacrime e affanni? Il dolore ha il mondo nel suo atroce pugno. Ed ecco l'altro romanticismo, la negazione dolorosa, il Leopardi. Ma il Leopardi fu il grande classico del romanticismo: egli non si duole e non geme come le umili creature, ma come il titano portatore di fuoco. Il suo Zeus è impersonale, è la Natura, ciò che rende la lotta più atroce e più fatale la disfatta. Più frequente è l'imprecazione che la lacrima; non il pianto domina, ma la disperazione.
   Ma nella fantasia del Pascoli non è il titano, non è nè la Grecia nè Roma, nè Saffo nè Simonide nè i vincitori dei giuochi ginnici. Per lui il


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tuono, grave carro di Giove, è un bubbolio lontano; la montagna non è lo sterminator Vesevo, ma la buona Pania nutrice di api. Egli ama il villaggio, col piovano, colle contadinelle, coi bimbi scalzi e coi pazienti mendichi. Perciò amerà soprattutto nel Leopardi quella poesia, che, insieme alla quiete dopo la tempesta, canta piccole creature esili sentimenti e brevi visioni naturali vicine alla tenue fantasia del Manzoni, il Sabato del villaggio, ed amerà quella poesia nella quale l'infelicità comune persuade al poeta non più una disperazione assoluta, ma un sentimento vicino al cristianesimo romantico: la Ginestra, che, infatti, per la sua significazione morale, piacque a molti più d'ogni altra creazione del grande.
   La negazione assoluta e la disperazione bestemmiatrice lascia il Pascoli al Leopardi. Grandi petti eroici possono combattere da pari a pari con la natura e col destino, non le dolci sorelle e i bimbi simili agli uccellini. Umile è la natura cantata dal Pascoli, deboli sono le sue creature, e non possono nè vincere nè negare: «la vita .... è bella, tutta bella» — dice il poeta — «cioè sarebbe, se noi non la guastassimo a noi e agli altri.» Questo non avrebbe detto il Leopardi, l'avrebbe detto il Manzoni, solo che alla bellezza della vita avrebbe sostituito la bontà di Dio.
   Ma il Pascoli non nomina Dio. Egli ha tolto Dio al Manzoni e la disperazione, il brutto potere al Leopardi. La sua ispirazione è tutta ín questi due, ma egli — mi perdoni il mite poeta l'immagine che lo calunnia — li ha tutti e due decapitati.
   Dalle due fantasie così monche è sorta la rappresentazione del mondo, che ha fatto del Pascoli un poeta.

II

   Quelle brevi ispirazioni, ora idilliche ora elegiache, che mossero gli esili ingegni di taluni verseggiatori romantici italiani, dal Grossi al Parzanese, fanno poeta, e di ben altra tempra, l'autore dei Canti di Castelvecchio. Fu notato che le creature di quegli umili lirici, derivate tutte qual più qual meno dall'Ermenganda manzoniana, vivono per morire, anzi non vivono che in quell'istante, in cui passano dalla valle di lacrime al paradiso dei giusti. Perciò quella luce celestiale, quelle purità angeliche, quel vedere negli occhi e nel sorriso delle vergini e dei bambini una predestinazione alla gioia superna, come dicevano, un raggio del candore etereo. Il paradiso delle anime semplici era l'unità di quelle visioni labili e frammentarie; era il quid maius, che dava, o voleva dare una significazione alle cose più tenui.
   Anche le creature del Pascoli non vivono che nella morte: ricordate i due cugini, la goccia più limpida delle Myricae, i due bimbi che s'amavano, « poi l'uno appassì, come rosa che in boccio appassisce nell'orto,» eppure dalla piccola tomba l'ama ancora la sua piccola sposa, e tentenna il suo capo di bimbo. Ma, senza Iddio, al paradiso succede il cimitero e agli angioletti gli uccellini. L'unità superiore e negata a questi fruscii d'ale e di foglie, a queste lacrime di deboli cuori; manca ai rondinini, per esprimermi con un'immagine cara al Pascoli, il nido che li raccolga; manca a queste gocce tremolanti un mare che le unisca. Ogni frammento è torbido di una confusa aspirazione verso la sua unità ideale, e perciò non sono cantati solamente i cimiteri, ma anche le campane, né solo le campane ma la chiesa e qualche volta la messa, che invita così dolcemente il poeta, e v'è qualche eremita e v'e qualche prete paziente che benedice. Chi ha letto l'Avvento e le altre prose del Pascoli, sa com'egli pencoli confusamente tra l'una e l'altra fede nelle opinioni civili e nelle religiose e com'egli si studii di affratellare nella dolcezza del suo sentimento le più contrarie dottrine e com'egli sappia oscuramente che manca alle sue opinioni una legge ed alle sue ispirazioni una sommità, una cupola, vorrei dire, poiché la cupola è quella che raccoglie in sè le linee dell'edificio e le dirige nell'alto.
   Quasi tutte le sue concezioni sorgono monche. La dolcezza e la semplicità del suo cuore lo farebbero il poeta della famiglia; pure manca la famiglia nella sua poesia. V'è qualche sorella, vi sono molti bimbi e qualche dondolio di culla; ma una piena espressione, com'è in aspirazione continua negl'inni manzoniani, com'è raggiunta nei Promessi Sposi, una visione pienamente efficace della primavera e dell'autunno familiare, delle spose e dei vecchi, dell'arancio e dell'edera, manca nelle Myricae e nei Canti; e, se qual cosa dí simile è nel primo canto del Ciocco, è omerico, non pascoliano. Bare sono nella sua poesia, e bare di bambini e di vergini, rose appassite in boccio. I vecchi sono, assai spesso, ciechi e mendichi. E come queste creature non vivono che per morire, così la maternità e il puro amor coniugale di Catullo apparisce in ombra, fugacemente, e tal volta non è che un sogno di vergine, che non amerà. La maternità, quello dei sentimenti domestici per cui la famiglia guarda fuori di sè, per cui afferma, e non si difende soltanto, per cui gode e spera, e non indugia troppo a lagrimare, quel sentimento grande ed imperioso pur nella sua mitezza che fu la musa dei nostri grandi pittori, non è essenziale alla famiglia del Pascoli, ove i morti vivono più dei vivi, ove i bimbi sono quelli che non cresceranno e le vergini quelle che non ameranno.
   La tenerezza della famiglia espressa nella sua unità ideale, che è la madre, fu dal Manzoni poeta del Natale e dai suoi belanti Imitatori adagiata in una strofe di brevi versi fiorita d'una tranquilla successione di rime e conchiusa da una soffice rima tronca. L'endecasillabo, il verso eroico, non è l'espressione ritmica delle brevi visioni e degli affetti tenui. Ed il Pascoli delle prime e seconde Myricae, che vede Sirio come un lumicino, e chiama nubi due bianche spennellate ín tutto il ciel turchino, e ode un canticchiar di stelle, canta anch'egli nei piccoli versi, che, suscettibili di poche variazioni, hanno nella loro medesima struttura il suono e l'aspetto, nè richiedono per vivere il soffio d'un petto eroico, come il verso dei Sepolcri. Ma, al contrario del Manzoni e dei Manzoniani, il Pascoli non s'adagia soddisfatto in nessun di questi versi, nè dà mai loro una forma strofica definitiva. Ad ispirazioni frammentarie, non coordinate ad una visione complessiva dell'uomo e del destino, prive d'unità interna ed esterna, non solo non si conviene l'endecasillabo e interamente contrasta il sonetto — così preciso e architettonica che facilmente diviene concettoso — né la scultoria quartina che il Pascoli tenta e lascia di buon'ora; ma anche la strofetta rimbalzante, echeggiante chiusa in sè come un'aria cantabile disdice. Tali forme precise sono tentate con maggior frequenza nei Canti che nelle Myricae e non sempre felicemente:

E chiudo i vetri. Il freddo mi percuote,
l'acqua mi sferza, mi respinge il vento.
Non più gli scoppiettii, ma le remote
voci dei fiumi, ma sgrondare io sento
sempre più l'acqua, rotolare il tuono,
il vento alzare ogni minuto più.

   E simile a questa sono altre molte, nelle quali il ritmo sembra del tutto estraneo alla mestizia ed alla soavità del sentimento e la chiusa suona come le ultime battute di un minuetto tutto inchini e civetterie. Sicchè, quando il poeta è signore della sua forma, tratto dall'intuito che non falla a cercar l'espressione sorella della sua ispirazione, tal che le somigli pur nel difetto dell'unità, si studia d'interrompere, dí storcere, di frantumare il periodo, e lo aggroviglia d'incisi, di parentesi, di oscure interrogazioni, di puntini che sottintendono ciò che appunto è sottinteso nella concezione, e procede parattatticamente, per reticenze, con incertezze e con riprese. Così nella forma metrica si compiace necessariamente nell'accoppiare versi di varia misura, nel rompere il periodo ritmico, isolando in principio od in fine un verso o un breve gruppo di versi, nel togliere la precisione alla strofa conchiudendola o spezzandola con un monosillabo o con una parola breve che cada lieve come una foglia morta. Una forma precisa di ritmo e di stile, che sia arte e non artificio, non è possibile, se la visione dell'uomo e della natura non si presenta una e simultanea alla fantasia, così che ogni particolare non viva che come accidentale manifestazione d'un'anima indivisibile. Ora il Pascoli vede troppo spesso successivamente, e i suoi quadri, non dominati dall'ombra, sembrano privi di prospettiva:

Un bubbolio lontano.
Rosseggia l'orizzonte,
come affocato, a mare:
nero di pece a monte,
stracci dì nube chiare:
tra íl nero un casolare,
un ala di gabbiano.

   Pare che ogni linea abbia lo stesso valore, e che la successione dei vani elementi del paese sia puramente casuale in questa esposizione analitica, dove non si mostra il più lieve tentativo di formazione, sia nel concetto che nell'ordine metrico e grammaticale. Altre volte invece l'unità dell'espressione è cercata, ed assai spesso è raggiunta col ritornello, un'unità esteriore molto comune nei canti del popolo e dei fanciulli, che procedono appunto per enumerazione e per successione, e, difettose di sintesi nell'intima qualità della loro forma, la conseguono con un mezzo esteriore e sensibile, che è l'unico suggello che a ciascheduna assicuri un'esistenza personale. Il Pascoli ama il ritornello, ed ha cantato, come simboli della famiglia, la granata e il girarrosto. I due fatti sono molto vicini poichè nei due canti della granata e del girarrosto il poeta, cui sfugge l'interiore ed essenziale unità della sua concezione la cerca in un oggetto materiale ed esterno; pone la sintesi dei sentimenti in uno strumento, pone l'unità della forma in una sillaba oziosa.
   Ma chi legge le prime Myricae è sorpreso da una continua aspirazione verso la terzina. Il sonetto non lo soddisfa, e crea una forma metrica — di due terzine e una quartina — in cui le terzine non siano oppresse e rese sorde; maneggia volentieri la saffica, un ritmo medio tra l'una e l'altra; nel Bacio del Morto, nella Notte dei Morti, nei Due Cugini tenta magnificamente terzina di novenarii; infine eccoci alla terzina di endecasillabi nel giorno dei Morti. E terzine sono le posie d'ispirazione meno umile nel Canti di Castelvecchio, il Bolide, tra San Mauro e Savignano, la parte lirica del Ciocco. Tutte le forme metrici del Pascoli tendono alla terzina, come a natural meta. La terzina, che sale dal primo al terzo verso musicalmente come un crescendo e filosoficamente come un sillogismo dalle due premesse alla conseguenza, la terzina che scende dalla precedente e si collega alla


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seguente con l'abbandono del sogno e dell'immagine e col rigore della deduzione, la terzina in cui s'incontrò la scolastica e la poesia e si formò la Divina Commedia, parta impresso il suggello dell'origine sua e sembra, con gli anelli delle sue rime e la sua violenta unita trinitaria, conchiudere, fissare sintetizzare qualunque immagine e qualunque pensiero. Ben lo seppe Il Monti. Ma il Pascoli, ben altro poeta che il Monti, mentre vi cercava inconsciamente l'unita formale e ritmica della sua poesia - la veste metrica , che, al contrario dell'ottava, permettesse, pur dissimulandola, la spezzatura e l'ineguaglianza dello stile, — trovò nella terzina sè stesso.
   Quand'egli sentiva più vasta la sua fiamma creatrice, s'accostava al metro di Dante, pur modificato talvolta, e il metro di Dante ingrandiva ancora la fiamma. Scrive, infelicemente, l'Immortalità in quartina; la condensa in una terza rima tutta ombre e silenzii, e ne nasce una meraviglia. L'ombra, l'eco, la prospettiva gli dona la terzina; sentiamo lo spirito del poeta sulla sua creazione, sentiamo una visione della terra e dell'uomo, indeterminata ma pur grande, entro alla quale ogni persona ed ogni linea assume una significazione che l'oltrepassa. La sorella di Alessandro è l'immagine di questa poesia:

Olimpias in un sogno smarrita
ascolta il Lungo favellio d'un fonte,
ascolta ne la cava ombra infinita
le grandi quercie bisbigliar sul monte.

   Come il poeta sente ingrandirsi, si accosta alla terzina, e la terzina, con la vastità del suo ritmo, apre le ali al suo sogno, amplia il respiro del suo petto. Nella terzina è il Pascoli della Piada, dell'Aouilone. del Carcere di Ginevra: il Pascoli maggiore.

III

   Ma i Canti di Castelvecchio sono del Pascoli minore, e sono, come il poeta ci avverte, le Myricae della sera, ed in parecchi sensi, io aggiungo. Tra la chiarità delle prime (ripensate ai Ricordi e alle Dolcezze) e il tono novembrino dei Canti è la distanza di colore che separa la pittura dell'Angelico da quella di Sandro. Nelle Myricae parevami di vedere, quale in germoglio, quale interamente fiorito, quale sfrondato sin da principio, ogni ramo dell'albero poetico pascoliano; e, mentre nelle quartine e nei sonetti sentivo lo scolaro del Carducci, ma scolaro capace di qualcosa, come la Romagna solatia, non indegna del maestro, nei Pensieri presentivo il poeta di Omar e di Solone, nei due Cugini v'era l'alito di chi doveva cantare l'Aquilone. I nuovi Canti sono invece chiusi in sè, nè vi risuona che una corda dell'antico tetracordo. E risuona talvolta con qualche stridore, peccato non solito in Giovanni Pascoli. Ma delle espressioni impure, come il fuoco delle vampe, l'urto alle vene, il blocco aguzzo, questo poco di giorno che mi traluce come da un velo e delle immagini fallaci, come il fumo che rampolla, le voci di tenebra azzurra, la lampada che brilla sulla tovaglia bianca come luna su prato dí neve, lento passavo e il cuore a volo andava avanti, un sangue più vivo più tiepido come di latte (nella qual frase è un di peggio che superfluo) e un pigolio di stelle non, davvero, pitagorico, mi risparmierò una lunga enumerazione, per il tedio che accompna le imprese troppo facili. Non già ch'io tema l'accusa di pedanteria, chè solamente i gazzettieri ignorano che lo stile è la vita dell'opera d'arte e che nello stile nulla è insignificante. Sono mende peggiori delle crepe di una tela bellamente dipinta, poichè l'interruzione del disegno e l'inaridimento del colore derivano qui non dalla materia inerte, ma dallo stile, dall'anima dell'opera. Concezioni mirabili, come la Poesia, la Cavalla Storna, il Sogno della Vergine (fantasia che è la più profonda in tutto il volume) sono gravemente turbate da queste inarmoniche congiunzioni di parole e d'immagini.
   I Canti di Castelvecchio sono dunque le stipe autunnali. Qualche breve poesia, come Valentino, perfetta e chiusa come una perla, contiene in sè tutto il piccolo universo delle Myricae: il bimbo povero ma pur contento, assomigliato agli uccellini che hanno le penne ma i piedi nudi, e nell'ombra la sua povera casa e il debole fuoco che non scaldava e più ancora nell'ombra la mamma, e tutto questo detto con un accento nel quale è insieme pietà e curiosità amorosa. Chi ha letto Valentino, sa che cosa dicano le Myricae ed i Canti. Ma se vi sono poesie conclusive, se vi sono i frutti, mancano i ramoscelli ruvidi per i germogli impazienti, manca la confusa aspirazione a un non so che di più perfetto. Anche l'espressione ritmica non è dubbia e, quasi direi, tremula com'era nel primo volume; molte poesie sono qui in un metro così compiutamente definito e serrato come la forma di un cristallo. Abbondano, non so se opportunamente, le strofe tronche e il ritornello è tenuto in onore molto più che nelle Myricae e spesso è dato dalla trascrizione sillabica di un suono, canto d'uccello o rintocco di campane.
   Ed anche di queste imitazioni il Pascoli fu più sobrio nelle Myricae primaverili. Ed è pure più frequente nell'ultimo volume la trascrizione, non solo in sillabe, ma in parole: così se nelle Myricae v'era un bisticcio quasi scherzoso tra vide e il videvitt delle rondini, qui il cucco consiglia a cuccare, il galletto canta: Vita da re! il neonato venuto al mondo chiede col suo vagito: Ov'é? il fringuello si lamenta: Finc finché nel cielo volai. Molti hanno rimproverato quest'abuso al Pascoli; io credo che abbiano ragione e che, non per l'abuso, ma l'uso stesso non sia generalmente poetico. L'origine di questo vezzo del ricercarsi nell'armonia imitativa degli antichi retori: poichè, se si ammetteva che un poeta potesse comporre i versi in modo da rendere il suono di ciò ch'egli voleva rappresentare, in cui dunque la parola avesse un valore palese, la sua significazione, e un valore recondito, il suono, come si voleva impedire la creazione di parole che fossero puri suoni? L'assurdo dunque: poichè si può, per astrazione, determinare il significato logico di una parola, ma non mai il suo valore emozionale e, per conseguenza, il tono musicale con cui va detta. Il vocabolario ci dirà che significa la parola cane; ma diversamente la pronuncerà chi vorrà insultare qualcuno e chi vorrà nominare il suo compno di caccia.
   Ma vi sono quelle parole che noi chiamiamo onomatopeiche nelle quali sentiamo il suono di ciò che esse significano. Se esse, o talune di esse, siano realmente sorte per imitazione di quei suoni, è questione che non mi riguarda; ma è certo che noi non percepiamo l'onomatopea, se non quando conosciamo la significazione della parola: come altrimenti distingueremmo urlare da burlare e fischio da vischio? la parola è così strettamente connessa con l'idea, che assai spesso pensiamo poterle attribuire le qualità della cosa che ci ricorda; e così ogni poesia è ín fondo armonia imitativa. L'armonia imitativa dei retori cominciava invece quando il suono assumeva valore per sè, ed era cosa sopportabile in qualche raro esempio di gran poeta, ma in sè detestabile. Perchè, quando la parola è trattata come suono e non come idea, finisce di esser poesia senza divenir musica: ben lo provarono alcuni decadenti francesi. Così l'armonia imitativa, meravigliosamente poetica finchè l'accoppiamento sonoro è o sembra casuale e portato dall'incontro delle parole più espressive d'un'idea, comincia a divenire artificio non commendevole, quando sentiamo che le parole sono state avvicinate per il suono a scapito dell'idea 1, e rimane addirittura fuori della poesia, quando è data da suoni privi di significato. Cinguettare è una parola, a cui possiamo attribuire un valore logico determinato, ma che pronunceremo diversamente, secondo le emozioni: scilp scilp invece è assolutamente privo di valore logico, ed ha un valore musicale nettamente definito. Il Pascoli trascrive tri.... tri.... lo zirlare dei grilli, ma evidentemente bisogna leggere quelle due sillabe con molta lentezza e con una certa inflessione di voce che si accosti a quel suono; così è per l'Addio dio dio dio dio del rosignolo. Sono sillabe che non danno il suono voluto altro che a chi lo conosce, e a questo lo dà tri... tri... come fri... fri..., come zir... zir..., o qualunque altra combinazione; tanto e vero che il canto del rosignolo è dal Pascoli trascritto indifferentemente Addio dio dio dio o Anch'io chio chio chio, o tiò tiò tiò. E si potrebbe continuare, con molto divertimento mio e dei lettori.
   Dirò per concludere che le note musicali potrebbero rendere in certo senso, il canto; ma queste sillabe non sono nè note nè parole; non sono né idee nè suono. Pur non arrivando ad esser musica, sono interamente fuori della poesia. E perciò sono comiche. Ricordate appunto quale comicità fragorosa abbia cavata Aristofane dai canti delle rane e da quelli degli uccelli così trascritti; ricordate il qua qua delle oche carducciane. Ricordate come ci faccia ridere il bambino che invece di dir che il vento urlava dice che faceva uuh e, se ha battuto il capo, dice che ha fatto bum; ricordate la volgarità di modi dire come patatrac, taffete, e simili e del tarantara dixit della tromba di Ennio; ricordate che un poeta da strapazzo beffava i primi romantici per l'abuso delle onomatopee, e concludeva una sua ottava, dicendo che da ora in poi si dirà:

bum il cannon, cra cra il gracchiar dei corvi,
patatim patatum botte da orbi:

   E da un'altra ragione procede la comicità di queste trascrizioni.
   Pare che il poeta si compiaccia a burlare il suo lettore: - O lettore sentimentale, quante cose ti dice la triste capinera? Tu sogni, è vero? Ebbene la capinera non dice che tac tac. E il cuculo, così strano! Ed esso mi dice: cucca, cucca la vite. — Allo Shakespeare il cuculo faceva allusioni un po' delicate sui mariti infelici e il poeta ne trasse una lirica di meraviglioso umorismo. E, sebbene il Pascoli raramente ci voglia far sorridere, sia pur tristemente, quando vuole, le rane che gracidano: quanta spocchia! quanta spocchia! o la gallina che dice: ecco, ecco un cocco per te riescono ad incurvare le nostre labbra. Ma senza la volontà del riso o del sorriso, quelle trascrizioni e quelle freddure sono comiche a dispetto del poeta. Meglio le mamme toscane che sanno dí far ridere í bimbi, quando dicono che la civetta canta : tutto mio! tutto mio! e che il merlo fischia: bello mio ti vedo! si! sì!.
   Sono traduzioni comiche, perchè negano il mistero, rimpiccoliscono la visione, uccidono il sentimento. Dante ci commuove, se dice che la campana pare il giorno pianger che si muore, ma perchè commuoverci, se la campana dice solamente: «A nanna! È tardi!» come voi, o Giovanni Pascoli, ci assicurate? Basta andare a letto. Dante ci fa triste se parla dei tristi lai


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della rondine; ma perché rattristarci se la rondine non dice che virb? Dice il Pascoli maggiore:

E trìsti i grilli piangono l'estate.

   Ma che, ma come piangono, se non dicano che tri.... tri?
   Pure sentite quali cose sappia cantare anche il Pascoli minore. E la lodola che vuoi vedere il sole.

Ma la lodola su dal grano
saliva A vedere ove fosse,
lo vedeva lontan lontano
tra le belle nuvole rosse.

   Meravigliosi! Nel ritmo, che, contrariamente a ciò che avviene troppo spesso in questi Canti, non è nella misura metrica di ogni singolo verso, ma in una ascensione che li tonde, ci sembra di provare una visione del mondo, come non è data, forse, che alle pupille mobili e affocate della purissima cantatrice. Ma sentite ciò che segue immediatamente;

E scesa al solco donde mosse,
trillava. «C'è, c'è, lode a Dio!»

   C'è c'è, lode a Dio! Un misto di onomatopea e di freddura suggerita dal ben diverso laudat alauda Deum. La lodola è divenuta un pappallo.
   E il Pascoli conosce la lodola dantesca che

in aere si spazia
cantando prima e poi tace contenta
dell'ultima dolcezza che la sazia,

   e conosce l'allodola di Shelley, che sempre cantando sale e sempre salendo canta. E le immagina il Pascoli, queste due allodole, a balbettare: C'è, c'è, lode a Dio?
   È vero che anche il Pascoli, come lo Shelley, assomiglia l'allodola al poeta

Col nido tra il grano, per terra,
ma sopra le nubi, col canto.

   Ma perché sopra le nubi? Per cantare C'è, c'è, lode a Dio? o per dire Uid Uid?
   Oh, per così poco non vale la pena di salir tant'alto!

IV

   Taluno dirà: piccinerie, pedanterie. E a questo non rispondo.
   Talaltro dirà: digressioni.
   E digressioni non sono. Noi vogliamo sapere che cosa ci dice un poeta, per giudicare se è grande, e qual via migliore che chiederci quali segreti dicano gli alberi, i monti, il mare, gli uomini al poeta? Ciò che ode egli ci dice. E il Pascoli ode piccole cose. Il paragone tra la sua allodola e l'allodola dantesca e chiaro assai.
   Piccole cose? Ma facile sarebbe la risposta ai pascoliani (non dico agli ammiratori del Pascoli, che tra questi sono io). Essi aprirebbero i Pensieri di varia umanità del loro autore, e mi mostrerebbero che la poesia è solo nelle umili cose, e che il poeta è il fanciullino e si rivolge al fanciullino.
   E io dirò che il poeta è un mezzo suicida, quando s'impone un'arte poetica, e lo sanno i moderni poeti francesi, che del giardino delle Muse hanno fatto un orticello sperimentale, e dovrebbe saperlo il Pascoli, da quando si è comandato di cantar la morte ed i morti, e di poetare come il fanciullino. N'è seguito che, mentre dai venti ai trent'anni il poeta cantava si il suo dolore, ma pur talvolta indulgeva ad un'ispirazione più serena (come provano i Ricordi nelle Myricae e più tardi alcuni bellissimi poemetti rusticali), ora ama costringersi criticamente entro un breve cerchio, e l'opera sorge meno limpida e pura, e il sentimento somiglia talvolta a un'abitudine.
   Ne è seguito che il cantore di Alessandro, del Libro, di Andrée ha creduto raggiungere il colmo dell'arte, quando ha scritto The harnmerless Gun, solamente perché e molto umile e puerile. Poesia si può fare delle cose più umili e più infantili, ma non basta cantare le cose umili e infantili per far poesia. Il fanciullino e l'ideale estetico del Pascoli. È un luogo comune il paragone tra il poeta e il bambino, ma, come tutti i luoghi comuni, racchiude un'idea profonda. Il fanciullo, non inaridito dalle comuni necessità dell'esistenza, il fanciullo che sa poco ragionare e perciò sa molto sentire, il fanciullo che trema e gode di tutte le apparenze della natura, che ama le foglie e le libellule, che piange e si rasserena, che guarda ogni mattina con meraviglia e con gioia nuova il sole e l'erba, che in un giorno ingrandisce la sua anima come adulto non l'ingrandirà in un anno, che desidera le cose belle e lucenti vicine come i fiori o lontane come le stelle, che tutto vorrebbe tra le sue mani e sotto le pupille tenere per farne vivere la sua anima che vuol sapere, che vuoi crescere, che vuol respirare; quale creatura vivente è più vicina al poeta? E in questo senso tutti i poeti sono fanciullini, quelli delle grandi e quelli delle piccole cose, il Dante di Farinata e il Dante del fantolino.
   Perchè in poesia non vi sono grandi e piccole cose; vi è l'anima dell'uomo in presenza del mondo. E quella è poesia, che sa farci varcare il recinto impervio entro il quale ci costringe la vita quotidiana e la miseria delle piccole comunioni degli uomini; quella dunque che sa ampliare, che sa aprire, che sa svelare. E non importa quali cose, poichè tutte, le grandi e le piccole, possono vivere in noi e farci palpitare o tremare. Ogni nuova immagine, ogni nuova visione, ogni nuovo abisso, sul quale il poeta ci fa piegare, ogni nuovo cielo verso cui ci fa guardare, è la sua gloria e la sua vittoria. Rendere ricca e profonda la nostra vita interiore — non vale se possente o malinconica — redimerci dalla superficie, agitare gli oceani più profondi della nostra coscienza, far vivere entro di noi il mondo, e metter noi in presenza di noi, creare la nostra anima e la nostra conoscenza, ecco la Poesia.
   La poesia non frappone veli fra l'anima e il mondo; e la scienza, che ci fa conoscere le cose per categorie e per astrazioni, non è poesia. Ora immaginate un bambino, che, udendo il tuono, spalanca gli occhi e s'impaura e ripensa una leggenda d'orco: ecco il poeta. Ma, se egli crede e s'acqueta alla spiegazione d'una madre plebea, che il tuono non è se non il rumore delle bocce del Padre Eterno, il poeta, il fanciullino è disperso, rimane un piccolo adulto, un piccolo essere ragionevole, un piccolo scienziato. E, se la scienza seria non e poetica, e, messa in versi, ci fa sbadigliare; la scienza falsa, quella dei popolani e dei bambini, ci fa ridere o sorridere. Socrate che muore, Socrate uomo e anima, e del poeta; Socrate che sottilmente ragiona, l'intelligenza e la scienza, non è del poeta ma del ragionatore; un Socrate — non importa se storico o leggendario — un Socrate falso e sciocco e di Aristofane, è comico. Non essendo ne scienza ne poesia, non facendo ne tremare ne pensare, fa ridere. E cosi voi, o Giovanni Pascoli, quando fate dire al neonato: Ov'è?, non siete nella scienza e pur rimanete molto lontano dal fanciullino-poeta.
   Io voglio ricordarvi una breve poesia di un nostro antico poeta, non celebre. Ed è poesia di umili sentimenti e di umili parole; che altre non si posson citare a voi, o poeta di Andrèe, per cui ogni cosa che non sia umile e retorica, e dimenticate forse che tra questi retori c'e Eschilo, Pindaro, Dante, Goethe e qualchedunaltro ancora. La piccola poesia ci parla di un bambinello, cui e fuggito il rosignoletto dalla gabbia, cose care a voi:

For de la bella caiba fuge lo usignolo.
Piange lo fantino però che non trova
lu so osilino ne la gaiba nova;
e dice cu dolo: chi gli avrì l'usolo?
E in un boschetto se mise ad andare,
sentì l'oseletto si dolce cantare.
— Oì bel lusignolo, torna nei mio broylo;
oì bel lusignolo, torna nel mio broylo.

   Non profanerò questo tesoro con un inutile commento. Ma non sentite?, si dolce cantare. Che sarebbe della poesia, se a queste tre parolette brevi fosse sostituito un fio fio fio? E se continuasse e l'uccellino rispondesse al bimbo: Addio, dio, dio, dio, dio, lasciami libero, libero, libero, lib....? Non potremmo né commuoverci ne sognare: tutto sarebbe chiuso, definito, chiaro e meschino.
   Cosi fa il Pascoli troppo spesso nelle Myricae e nei Canti, e la trascrizione dei canti e dei suoni non è che una delle manifestazioni più evidenti di questa assenza d'ombre e di profondità nella sua poesia. So bene che cosa valgano Fides e i Due Cugini e il Cocco e il Sogno della Vergine; ma troppo spesso ci chiude piuttosto di aprire la nostra anima, immiserisce piuttosto d'interrogare, canta la natura senza orizzonte, i bambini senza anima. Soffrono il freddo e la fame, piangono, ma non guardano; e il bambino è poeta perchè guarda. Sono piccoli uomini deboli, non fanciullini, e gli uccelli sono piccoli fanciullini più deboli e più timidi, nient'altro, per il Pascoli minore. Lungi dall'approfondire la nostra coscienza, egli ama ricondurre i sentimenti alla superficie; i suoi paesi, i suoi uccellini, le sue creature potrebbero star tutte, dipinte, su un paravento giapponese.
   Perciò, quand'io leggevo l'ultimo di questi Canti, nel quale sono alcune parole di bello orgoglio, commentate poi nella nota con troppa modestia, nel quale il poeta dice:

Io sogno! io sogno, o muto autor del male:
ma se di quelli che dannasti a morte
col padre loro, fosse, uno, Immortale!

   io pensavo: grande, immortale, poeta, si! Ma per poche delle Myncae primaverili ed autunnali, ma piuttosto per il libro del Mistero e per Ahasvero errante e per l'Ignoto e per la Morte con la sua lampana accesa e per la bronzea porta d'Occidente! Grande poeta, ma per ciò che ha cantato quando ha volato, non come il pettírosso, ma come l'aquila, o, se più gli piace, come l'allodola.
   Allodola, che canta ben altro che le freddure.


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