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È un affare seccante, disgustoso e ignominioso. Eppure non si può fare a meno di parlarne. Piuttosto che il processo a un indelicato arrivista trapanese è uno dei tanti processi che l'Italia, ogni poco, è costretta a intentare a sè stessa.
In questo vediamo: un ministro, che poteva diventare facilmente Presidente del Consiglio, esercitare su larga scala il furto domestico, sia per debolezza, sia per soddisfare i clienti politici o per naturale indifferenza morale;
un corpo politico rispettabile, che dovrebbe occuparsi d'importanti affari di stato, ridotto, per molti mesi,
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allo stato dì pretore collettivo per giudicare di piccoli furti di orologi, dì statuette e di appropriazioni indebite continuate;
una camera di deputati costretta, per rispetto all'opinione pubblica, a mettere in istato di accusa un mafioso altolocato ma nello stesso tempo timorosa che il processo non scopra altre porcherie a carico di membri suoi;
una regione intera che trasforma una questione di codice penale in questione regionalista e crea, non immemore delle briciole cadute dalla tavola del ministro caduto, la leggenda del perseguitato;
un popolo senza pudore, ghiotto di pettegolezzi, che si diverte a veder lavare i cenci sporchi; fa del Nasi un mostro o un eroe e vuole che i suoi giornali occupino pagine intere coi mediocri imbrogli di un politicante disgraziato.
Nasi potrà essere assolto o condannato, ma l'Italia s'è già condannata da sè.
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