Articoli di Giovanni Papini

1903


Verso il Buddha Siddharta
Pubblicato in: Leonardo, anno I, fasc. 3, pp. 1-3
(
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Data: 23 gennaio 1903


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Sciogliti dal passato, sciogliti dal
futuro, sciogliti dal presente o
vincitore del mondo! Libero da tutti,
sei fuor del nascere e del decadere,
DHAMMAPADA, 348.


I nostri cari uomini sono, bisogna dirlo, degli animali abbastanza religiosi e non si trovano mai così bene come all'ombra di una tunica sacerdotale o di un santuario accreditato. Le preghiere sono degli innocui palliativi da tirarsi fuori in caso di bisogno o in punto di morte e i dogmi sono delle ricette molto comode per conservare la salute dell'intelletto. Malgrado i lamenti dei bigotti del vecchio stampo tutto tende a conservarsi o a divenir religioso e siamo arrivati al punto che si convertono in idoli perfino i liberatori e si tenta di trasformare in culti anche certe attività che ne sembravan lontane. Così, accanto ai preti di Cristo, abbiamo i sagrestani di Voltaire e i chierici di Nietzsche e nel bel mezzo dell'America del Nord il buon Paul Carus cerca di fondar la Religion of Science mentre i ruskiniani parlano senza scrupoli della Religione della bellezza.
   Tutto ciò che riescono a fare gli spiriti vagabondi o di buona volontà è di mutare di quando in quando il santo protettore e la cappella preferita, ma la fede, qualunque sia la veste e il colore, rimane intatta ed eterna e chissà quanto tempo ci vorrà ancora perchè gli uomini possano fare a meno di questa benefica gruccia. E certo che la ragione intima di questo bisogno religioso trascende le molteplici forme esteriori di cui si riveste e che c'è qualcosa nell'anima umana che non si può ridurre al fatto d'inginocchiarsi o di battersi il petto. Ma andando bene a fondo mi sembra che questa necessità del mistero, questo istinto imperioso di porre qualcosa al disopra del proprio io, sia una delle tante rivelazioni dell'irrimediabile inferiorità della massa umana.
  I veri liberi sono i perfetti atei — coloro che non misero qualche gelida astrazione, come l'Umanità o il Vero, al posto di quei vecchi ed estetici dei che erano Brahma e Jehovah. Quando si debba cambiare di abito perchè gittare ai pitocchi il bel manto semitico o ariano per indossare la striminzita zimarra enciclopedista e razionale?
   Perciò io non saprei abbastanza lodare quelle anime inquiete che avendo bisogno di quegli anestetici spirituali che sono le religioni, vanno cercando nei lontani paesi d'Oriente qualche nuovo Dio e qualche nuova parola. L'Oriente è il gran bazar religioso dell'umanità e tutti vi hanno trovato ciò che vi hanno cercato.
  Da esso, sull'alba del secolo scorso, ci venne la dottrina di Buddha, che ha trovato sul mercato d'Europa e d'America una buona accoglienza, che sta con un certo onore fra quella del the e dei ventagli giapponesi. Senza contare ciò che di buddista si trova in certe concezioni filosofiche moderne — e basterebbe citare, fra gli ultimi, il Reinacle — il buddismo s'è introdotto nei centri letterari, ove è di bon ton citare il Tripitaka; ha suscitato, a Parigi e altrove, dei piccoli cenacoli di adepti ortodossi; e sotto le sottane della signora Blavastky e di Annie Besant, trasfigurato e conciato in modo pietoso, corre il mondo sotto il nome di teosofia, e fa buona prova come specifico per vecchie signore spiritualiste e come svago di giovani signori confusionisti.
  Anche l'Italia, la nostra buona e scettica Italia, s'è messa della partita e dopo gli studi del Puini e del Mariano, dopo


 
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il manuale del Pavolini, ecco un libro di Alessandro Costa che propone senz'altro il buddismo come uno degli antidoti ad effetto sicuro della presente irreligiosità.1 E pochi sanno forse che in Italia vi sono, nelle città maggiori, delle logge teosofiche e che a Roma si pubblica, più o meno clandestinamente, una rivista di teosofia che si propone di condurre i nostri peccatori sui sentieri della salvezza.
  Dinanzi a questa infiltrazione di spirito buddistico in tutto il mondo occidentale vien quasi la voglia di domandarsi: cos'è mai e cosa vale la dottrina di Sakhya-Muni?
  Sull'essenza del buddismo, come su quella del cristianesimo, abbondano le opinioni e le teorie ed io non posso far qui la storia dell'esegesi europea da Brian Houghton Hodgson fino al Neumann o al Deussen. L'opinione più comune, ch'è quella alla quale bisogna per forza riferirsi, ci rappresenta il Buddismo come un movimento etico-religioso, con carattere antispeculativo, che proclama la rinuncia alla vita, affermando il dolore del mondo un ascetismo pessimista e antiteorico.
  Ora, me ne dispiace per la maggioranza che ad onta dei suoi avvocati gode così trista fama, ma anche questa volta l'opinione più comune corre il rischio di esser la più superficiale e la pìù storpiatrice che vada pel mondo.
  Cominciamo dall'osservare che il Buddismo non può dirsi ìn nessun modo antispeculativo perchè presuppone e comprende implicitamente un'intera cosmologia e un'intera gnoseologia. Ormai nessuno nega più che il Buddismo non sia uno svolgimento del pensiero delle Upanishads, come questo era uno svolgimento di quello vedico e le Upanishads sono, per chi non lo sapesse, uno dei monumenti più ricchi della speculazione umana.
  Il Buddismo appare non speculativo perchè poco ha aggiunto al pensiero, ma ciò non toglie ch'egli non abbia tolto alle dottrine antecedenti tutte quelle parti teoriche che gli abbisognavano. In fondo l'unica differenza dottrinale che ci sia tra le Upanishads e il Buddismo è la sostituzione del desiderio (màra) all'A'tman, nel resto moltissime teorie brahmaniche si ritrovano in tutti i testi buddistici primitivi o posteriori. E Buddha stesso. malgrado il suo apparente sprezzo per i filosofi, dovette, secondo si narra nel Suttanipàta, per stabilire la sua dottrina, sconfiggere la bellezza di 63 sistemi filosofici! E se per filosofia non s'intende soltanto, con angustia da manuali, ciò che vien chiuso nelle formule rigide di un sistema, non è forse filosofo anche Gotama Buddha, quando dai fatti parziali che gli cadono sotto lo sguardo ascende alla visione universale del dolore e del desiderio?
  E come Buddha non è antispeculativo così non è neppure pessimista. Il pessimismo profondo e completo, come io l'ho conosciuto in una stagione della mia giovinezza, non ammette scampo o salute. Non solo afferma il male, ma afferma anche l'impossibilità di sfuggirgli. Colui che spera di uscire dal dolore, anzi ne insegna la strada ad altri, è tanto pessimista quanto Descartes è scettico; la critica del mondo è, in lui, un passo preliminare e nulla più.
  Così è quello che i semplicisti della storia del pensiero chiamano il pessimismo Buddista. Le quattro grandi verità di Gotama, che sono state prese per uno dei vangeli del pessimismo non sono che la promessa di una liberazione, l'adito a una vita perfetta. Nel mondo esiste il dolore, dice il Buddha Siddharta, e il dolore è generato dal desiderio di vivere che possiede ogni uomo. Il santo deve perciò liberarsi dal desiderio, lasciare questo mondo vano e fuggevole di piaceri, ritirarsi nella solitudine e aspirare alla pace suprema del nirvana.
  Cioè quella che vien disprezzata è la vita comune, la vita delle apparenze, il Samsàra; ma, grazie alla rivelazione de maestro, ogni uomo di buona volontà può ascendere alla beatitudine. Buddha è un medico dell'umanità, ma non dispera della sua sorte e anzi sì vanta di fornirle il farmaco sicuro che la libererà da tutti i mali.
  Non è dunque un pessimista che trovi in ogni cosa il male e affermi la vanità radicale di ogni nostro sforzo per uscirne ma un critico che di contro alla realtà comune contrappone un ideale liberatore ed invita gli uomini a seguirlo. «Così la verità, o solitari, — dice egli — è stata da me bene annunziata, mostrata, scoperta, esposta, svelata. E quelli che sentono fiducia e amore per me, tutti questi salgono verso il cielo.» Egli è, come tutti gli incantatori di uomini, un promettitore, un profeta e come tutti quelli che lo precedettero e tutti quelli che lo seguirono, egli crede, con un ottimismo stupefacente, di essere in possesso della via meravigliosa, dell'unica verità. Sakhya Muni era troppo ingenuo per essere veramente pessimista, egli che sperava negli uomini e nella loro felicità.
  Era ingenuo un poco anche nelle idee, chè il suo preteso pessimismo, oltre ad essere puramente provvisorio, poggiava su fondamenti estremamente deboli. Egli apparteneva a coloro, che sono anche oggi i più, i quali, sopra il criterio qualitativo pongono quello quantitativo e giudicano dei libri dal numero delle pagine, della sapienza dal numero dei fatti, della potenza di un popolo dal numero delle armi. Una delle sue grandi accuse, e si può dir quasi l'unica, contro la vita degli uomini è ch'essa è cosa transitoria, fatta di cose fuggevoli e periture. «Tutta l'esistenza fugge senza tregua — ripete egli in tutti i suoi discorsi — l'età consuma questo fragile corpo, nido di malattie; ciò che perisce è male.....»
  Egli non era ancor giunto a quel profondo e raffinato stato d'animo nel quale le cose tanto più sono amate quanto più sono brevi, in cui le gioie acquistano, dalla loro rapida fuga, un novissimo incanto. È carattere essenziale del piacere l'esser breve e noi lo ricerchiamo forse appunto per questo: io non mi so figurare lo stato di beatitudine eterna che come un'indicibile seccatura divina.
  In questo, Buddha si dimostrò più profondo di quei semiti che ci dettero il cristianesimo. Egli non promise ai suoi fedeli un paradiso qualunque, ma uno stato superiore, che trascende la stessa esistenza, il nirvana. Questa tormentata parola non significa, come potrebbe sembrare da certi testi, lo stato ultimo dell'ascesi in cui il beato trova la quiete assoluta, e non è neppure, come si crede comunemente, un annientamento completo. È qualcosa che supera l'essere e il non-essere, uno stato di esistenza assolutamente diversa e che può forse somigliare, come vuole il Bastian, all'esistenza in sè al di fuori di ogni categoria. Ma a questo stato superiore i fedeli di Buddha salgono attraverso più gradi di santità, che sono già di per sè qualcosa d'infinitamente più dolce della vita comune divorata dal desiderio. Nell' ultimo stadio, nell'arahà, ch'è quasi un'anticipazione del nirvana, i santi sono già rappresentanti come Dei, sciolti da ogni legame, liberi da ogni peccato, forniti di facoltà trascendentali e di potenze meravigliose.
  Come si può continuare a chiamar dottrina della rinuncia una religione che rende possibili tali prodigi? Si chiameranno rinunciatori coloro che lasciano la travagliata vita quotidiana per salire alle altezze della semidivinità? Sarebbe come chiamare asceta chi lascia un ingrato campicello per movere alla sicura conquista di un dominio ricco e meraviglioso. Io ci vedo anzi, nel Buddismo, non solo un ottimismo radicale ma anche un calcolo abbastanza profondo ed accorto, che smentisce un poco le solite dichiarazioni disinteressate di distacco dal mondo. Per chi crede a Buddha solo il salire al primo stadio di santità, al sotopanno è già un buon affare e se io riuscissi a credere


 
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in buona fede alla predica di Benares finirei probabilmente per darmi alla solitudine in cerca di santità.
  Il buddismo è dunque una religione utilitaria e ottimista, come sono del resto quasi tutte le religioni del mondo, non fosse altro perchè son create per il bisogno della moltitudine ch'è appunto, anche senza saperlo, utilitaria e ottimista. E come tutte lé religioni anche il Buddismo ha bisogno di puntelli filosofici e di un contenuto teorico, e il suo preteso sdegno antifilosofico dipende in fondo da povertà inventiva, per cui ha dovuto chiedere in prestito al brahmanesimo i suoi capisaldi speculativi.
  Messe così a posto le cose (cioè al mio posto) ci sarebbe forse bisogno di dare una valutazione in regola del buddismo. Ma ogni valutazione è personale e non prova null'altro che gli istinti e le tendenze di chi giudica. Ora io non son sempre disposto a far delle confessioni ad alta voce.
  Piuttosto, giacche il consigliare altrui, dice il Tasso, è il più facil mestiere del mondo, io voglio donarvi un consiglio.
  Il Buddha Siddharta appartiene alla schiatta degli incantatori di anime; le sue parole sono certe volte dolci come richiami di femmine e certe sue immagini sono agili e belle come freccie fiorite.
  Chi tiene al suo me stia in guardia contro di lui! In qualche melanconico pomeriggio egli potrebbe forse allacciare e vincere il vostro spirito. Ma nel suo nome sta la salvezza: Buddha significa, in sanscrito, il desto, e desti amava egli chiamare i suoi seguaci più cari.
  Che il nostro spirito sia desto contro di Lui, come con tutti!

  1 A. Costa, Il Buddha e la sua dottrina. - Torino, F.lli Bocca, 1903. Si annunzia prossima la traduzione ital. dei discorsi di Buddha fatta dal Prof. De Lorenzo.


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