Articoli di Giovanni Papini

1924


Sogno di mezzo Dicembre

Pubblicato in: La Camerata, numero unico per l'inaugurazione dell'Università di Firenze, pp. 3-6
Data: 23 dicembre 1924
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I


   Cosa c'entri io, per l'appunto io, coll'Università li Firenze, non l'ho ancora capito e se qualcuno non mi aiuta ho paura che non lo capirò mai.
   Non sono stato, per grazia della miseria e della Provvidenza, né matricolino né laureando e non ho mai dovuto manifatturare tesi e tesine per il perfezionamento della cultura dei professori. E spero che nessun editto mi forzerà a salire (dico salire per abitudine di linguaggio) una cattedra. Io rispetto molto le cattedre quando son mastiettate bene e verniciate meglio; ma ho un rispetto anche maggiore della mia vecchia e progressiva ignoranza e di quella, troppo speranzosa, dei giovani che ché tra tanti viventi s'illudono di poterla scemare o perdere. Un paio di anni fa volevano farmi insegnare letteratura italiana in una Università pareggiata, forse per darmi una penitenza — il Magnifico Rettore è un famoso frate Minore — ma io, dopo averci pensato parecchio, dissi di no e tenni duro anche agli assalti reiterati di quella buona e brava gente lombarda. E credo d'aver fatto bene. Avrei imparato forse, cogli anni, la storia della letteratura italiana ma col rischio di non figurare mai più nei capitoli che di quella storia ancora son da scrivere e che saranno insegnati, se l'usanza regge, da professori più coraggiosi di me. Per essere maestri pubblici e pagati bisogna avere un bel malloppo di ottimismo, e fra le tante mie debolezze questa proprio mi manca. Bisogna essere ottimisti circa le proprie capacità comunicative e discorsive e circa il desiderio e la supportazione degli scolari. Un Pangloss può insegnare giorno e notte; un Timone non è buono neppure ad essere ammaestrato. Non dico d'esser Timone, ma certo son più portato a fare il romito che il “dotto ed elegante dicitore „, sommomolo trionfante delle aule magne e minime.
   Ma questi, giustamente direte, son ricordi e sfoghi privati che non ci premono: altro si chiede a vostra signoria.
   E allora narreremo le vicende (si sottintende gloriose,) dello Studio fiorentino, decretato nel 1321, aperto nel 1348 (l'anno della peste), chiuso nel 1404, riaperto nel 1412, e discorreremo delle sue glorie, da Recupero di S. Miniato a - l'ultimo nominatelo voi, ché tra tanti viventi “ultimi„ ho paura di metter la penna in fallo. Lo Studio Fiorentino, mi dispiace dirlo, nacque clericale. E mandato il comune al papa e a' cardinali — scrive Matteo Villani — a impetrare privilegio di potere conventare in Firenze in catuna facoltà di scienza, ed avere la imunità e onori che hanno gli altri studi generali di Santa Chiesa, papa Clemente Sesto, con suoi fratelli cardinali, ricevuto graziosamente la domanda del nostro comune, e considerando che la città di Firenze era braccio destro, e favore di Santa Chiesa, e copiosa d'ogni arte e mestiere, e che questo che s'addomandava era onore virtudioso, acciocché il buono frutto di virtù, di comune concordia del papa e del suo collegio de' cardinali, concedettero al nostro Comune privilegio che nella città di Firenze si potesse dottorare e maestrare in Teologia, e in tutte le facultadi delle scienze, generalmente.


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   Il periodo è lungo, la sintassi malcerta, ma il senso è chiaro. Tanto chiaro che sembrerà inverosimile. O la Chiesa non è sempre stata la nemica d'ogni scienza e il moggio di tutte le fiaccole?
   Ma quei poveri vecchioni fiorentini, sopravvissuti alla peste del Boccaccio, non erano ancor tutti, come quelli d'oggi, Filostrati e Dionei; eran cristiani e cristiani all'anticaccia, sicché s'immaginavano che per un cristiano non v'è scienza più necessaria a sapersi di quella che tratta d'Iddio; e siccome riverivano nel papa il sommo docente de' cristiani, a lui si rivolgevano per avere il permesso di far insegnare alle lor creature i misteri della creazione.
   Oggi, per decreti di Pescasseroli e Caltagirone, il Cristianesimo va insegnato insieme all'abbecedario e all'abbaco, e non più innanzi. Il Vangelo e Pinocchio appartengono allo stesso stadio dei programmi e dello spirito: e dopo la quinta elementare Gesù diventa un precursore di Emanuele Kant e Dio una semplice ipostasi del pensiero non più in atto, ma di quel pensiero che pur non essendo pensiero puro, essendo un pensato e non già un pensante, celebra la sua affermazione, ch'è poi perpetua negazione, nell'immanenza del pensiero unico e universale, attraverso il luminoso mistero dell'autoctisi.
   Benedetti ragazzi! Vedete in quali gineprai siamo andati a metter le gambe? Proviamo da un'altra parte.

II


   Ci sarebbe il tasto, sempre lustro da quanti diti ci s'appoggiaron sopra, di Firenze “Atene d'Italia„. Per i quattrocent'anni poco meno che vanno dalla nascita di Dante alla morte di Galileo si può accettare, senza pudicizie finte, l'appellativo. Ma dopo? Firenze c'è sempre ma di Atene ci son rimaste le nottole che vengon fuori, insegnano gli ornitologi, sul far della sera. Dopo aver dato luce al mondo oggi siamo costretti a far venire i lumicini di fuori. Il nostro Sindaco è vercellese, un de' nostri quotidiani è diretto da un calabrese e un altro da un genovese, il più famoso storico che viva tra noi è nato a Portici da genitori piemontesi, l'arconte della critica d'arte è romano, il più reputato medico lombardo, il più celebre romanista valtellinese, i due maggiori filologi sono un sannita e un romano, il più illustre scultore è siciliano e il più alto musicista era, fino a pochi mesi fa, un parmigiano. Delle due più antiche e famose case editrici una fu fondata da un francese, l'altra da un torinese — e la nostra massima biblioteca circolante ha origine svizzera.
   Se poi volete studiare la storia di Firenze, e non vi fidate dei napoletani Villari e Caggese, vi tocca a cascare nelle mani del tedesco Davidsohn, e se volete monografie belle e ben fatte sui nostri grandi mandate pure ordinazioni a Londra e a Lipsia.
   E i fiorentini dove sono? Dove sono i toscani? Cosa fanno? C'era, ultimo làscito della vecchia famiglia, una istituzione tutta fiorentina, la Crusca, e hanno voluto levare anche quella, colla scusa che in un bilancio di venti miliardi non c'è posto per le centomila lire che ci vogliono per stampare un vocabolario, archivio vivente dì quella eredità che più d'ogni altro legame affratella gli italiani.
   Ma certe ghiandaie ladruncole hanno cominciato a dire che noialtri toscani non si sa neanche scrivere in italiano o, per meglio dire, che non s'ha nulla da dire, quando non si rifà il verso alle stiratore e agli ortolani di piazza. Può darsi — ma può anche darsi che codesti pennuti ingrati e queruli non abbiano un'idea molto chiara di quel che sia scrivere e di quel che sia lingua italiana. E per disanimarli osserverem che gli scrittori toscani hanno la pelle dura: se il Piemonte offre i due vincitori nella longevità politica — Boselli e Giolitti — noi abbiamo il vanto della longevità letteraria: auguri di lunga e sana vita a Isidoro Del Lungo e a Ferdinando Martini.
   Ora, però, in compenso della Crusca che registrava parole, ci hanno dato una Facoltà Giuridica che imbotta formule: staremo a vedere i frutti, se le foglie son buone. Molti elementi del diritto arcaico romano provenivano — come tante altre cose romane — dagli Etruschi: speriamo che si possa far buona figura come preparatori del nuovo diritto di là da venire, che romano di certo non sarà.

III


   Ma l'Università, almeno nel senso grande e antico, non può essere soltanto un aggregato di facoltà per la distribuzione annuale di centodieci con lode. Deve avere un'anima, un principio suo proprio quella che si chiama, con troppo sciupacchiato vocabolo, missione.
   Nei tempi dei tempi, quando le Berte filavano alle belle finestre nel posto delle brutte Parche oggi riadorate regine, questa unità spirituale era data dalla scienza delle cose divine. Ma ne' tempi profetati da Carafulla non c'è voglia che di cose umane e anzi, perché a volte paion troppo alte anche l'umane, di cose suine e belluine e rettiliane. Ma


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se non volete conoscere l'Iddio vero e unico pensate almeno, giovani, a combattere le diverse ma egualmente bestiali idolatrie ormai, più che minaccianti, quasi padrone della nostra sconnessa civiltà. Non val la pena di abbandonare il Dio del Sinai e del Tabor per diventare, senza avvedersene, i domestici di Mulungu, di Nyambé o di altri barbari feticci.
   L'Università di Firenze, che vive in una città più famosa per le glorie pure dell'intelletto che per le impurissime della politica, potrebbe avere un suo carattere e un suo còmpito. Dovrebbe essere, secondo me, tutta quanta una gran facoltà di medicina destinata a disintossicare l'anima italiana da più di cent'anni invasa da morbi esotici e da febbri forestiere. Oggi tutti parlan d'Italia e, a dar retta ai discorsi, quaranta milioni di spasimanti muoion d'amore ai suoi piedi. In verità, se ci si mette a guardare, ci s'accorge che pochissimi sanno veramente ciò che Italia sia, ciò ch'è grandezza e bellezza e tradizione e gloria e salute di questa pazientissima Italia e si scopre che moltissimi l'amano allo stesso modo che le pulci amano la calda pelle venosa del leone. E i più, per non sapere, lodano l'Italia di cose che italiane non sono e che invece repugnano all'antico ed autentico genio del nostro popolo. Ma siamo a tal punto che l'Italia non è capace neppur d'inventarsi le malattie da sè.
   C'è prima di tutto, il Mal Francese, cominciato nel settecento, che consiste nell'enciclopedismo degli spiritoselli, nel razionalismo politico portato fino al Terrore inclusive, nella democrazia progressiva come la paralisi, nello scetticismo afrodisiaco nato con Montaigne e morto, speriamo, con Anatole France e in quell'ideale bohemesco e parisiano, ozioso e vizioso, che tanto male ha fatto a' nostri giovani provinciali.
   C'è poi il Mal Tedesco, che cominciò colla forma (madre lontana del libero esame, libero pensiero, libero cristianesimo e altre burattinesche servitù) e si aggravò poi col famoso idealismo prussico, che ancor ricopre l'Italia di schianze e volatiche, senza contare l'elefantiasi filologica degli arcipedanti collazionanti e congetturanti, e il marxismo (ovvero l'intestino pieno pieno e vuoto come principio di ragion sufficiente e di evoluzione calante) e infine il famigerato Deutschland über alles che durante la guerra ci fece ridere e che oggi i vinti ci hanno rifilato, ben tradotto nelle lingue dei vincitori, come trofeo di guerra in conto riparazioni.
   E c'è il Mal Britannico, grave anche questo, perché comprende qual primo sintomo, il famoso sistema rappresentativo e parlamentare, coi suoi strascichi detti liberalismo e liberismo; eppoi la smania delle macchine (serve-padrone puzzanti che alla fine ingolleranno e triteranno i loro pallidi fabbricatori) e la smania dello sport, che nella terra promessa dell'intelligenza ha inalzato calciatori e cazzottatori a re della strada e dell'opinione, e la smania delle colonie che a noi, ultimi arrivati, ha fatto pagare altissimi prezzi per rimanenze di scarto.
   E dove lascio il tal Giudaico, mal vecchio e incarnito, diventato anzi più acuto, per via di trasmissione, nei non circoncisi? Il Sombart ha dimostrato come nella natura stessa del popolo ebreo sia contenuto in nuce il capitalismo moderno: oltremirabile creazione certo, vista sul piano sadduceo, ma paurosa e pericolosa sul piano cristiano e soprannaturale. Il sionismo è ingenuo: ormai i cinque continenti son tutte provincie di una mistica e dilatata Palestina, dove il Dio Affare, vero Dio delle battaglie, riceve i suoi tributi da ebrei e samaritani, da cristiani e da gentili, dai posteri di Salomone e da quelli di San Francesco.
   E soffriamo perfino di Male Iberico, male che si credé finito col sopravvenire di quello francese, ma che oggi rifiorisce sotto forme inquietanti: boria nazionale e individuate (ben differente dall'orgoglio, ch'è peccato ma peccato dei grandi mentre la boria è vizio de' piccoli) e la tendenza ai pronunciamentos. La storia del nostro Risorgimento cominciò col pronunciamento di Alessandria del 1821 al grido di “vogliamo la costituzione di Spagna„ ma se veramente si volle risorgere si dovettero camminare altre strade. Speriamo che il morbo spagnolo si fermi all'amor de' pennacchi, dei rastri, de' ciondoli e dei lustrini: gl'italiani che hanno fatto qualcosa nel mondo si vestiron sempre ne' più semplici modi, e quasi poveri, lasciando frangie e galloni ai ragazzi invecchiati. E dalla Spagna, sia detto per giustizia, dalla Spagna che ha dato, per non dir altro Cervantes e Sant'Ignazio, ci sarebbe da prender qualcosa di meglio che i gusti e gesti dei suoi matamoros.
   Ora, per levarsi una buona volta di dosso tutte queste esotiche pestilenze e ritrovare il sangue schietto dell'Italia bella e santa, ci vorrebbe una grande Scuola di Sanità spirituale che potrebbe essere, se non vaneggio, Università di Firenze. Proprio quella di Firenze, dove nacque e fiorì la prima e vera civiltà italiana, ed è fra tutte le città italiane la più italiana di stile e di spirito. Le città del settentrione sono un po' Mitteleuropa; Venezia è una galea bizantina ancorata in fondo all' Adriatico; le grandi città del sud sono ancora Magna Grecia con innesti normanni e saracini; Roma


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é troppo vasta e universale per essere soltanto italiana. Rimane Firenze, che ha dato all'Italia l'eroe rappresentativo della razza, Dante, e la lingua che unisce nella gioia della sonorità soave e potente tutti i cuori italiani, e ha dato infine il meglio di quella vera Rinascita che comincia, per noi, nel secolo decimoterzo.
   All'idolatria del numero, della forza, della macchina, dell'oro, della formula, dell'affare, della rozza modernità noi dobbiamo contrapporre l'amore del genio, dello spirito, della bellezza, della serenità, dell'armonia, della pace, e quell'Amore che tutti li comprende, “l'Amor che move il sole e l'altre stelle.„
   Questa è Italia bella, questa l'Italia grande ed eterna che le nazioni ammirarono e imitarono. Non l'Italia che s'imbriacata dì zozze straniere, e s'è impestata di mali stranieri, e scambia le allucinazioni delle sue ebbrezze e i brividi delle sue febbri per dimostrazioni di nuova robustezza. II vero amor di patria non consiste soltanto in gridi ed inni ma nel ritrovare, della patria, le giuste e nobili fattezze sotto l'impiastricciature e le croste forestiere; consiste, prima di tutto, nel disebriarla e disavvelenarla con amorosa rudezza.
   Sogni, diranno i soliti saggi dì sonno duro.
   Meglio, rispondo, sognar con Dante che stare svegli con Ciacco e Belacqua. E mi conforta il pensiero che qualche volta i giovani hanno posto tanto amore ai sogni dei vecchi da trasformarli in capitoli di storia viva e vera.


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