Pubblicato in: Il nuovo Corriere della Sera, anno LXXVI, fasc. 298, p. 3
Data: 18 dicembre 1951
L'opera breve di Pär Lagerkvist (Barabba. editore Casini) non è un romanzo storico nè una storia romanzata. È un «poema intellettuale» nel quale la figura di Barabba rappresenta ben altro che il brigante graziato.
Questo libro, nella sua delicata sobrietà narrativa, è una interpretazione nuova delle prime giornate cristiane che può valere, agli occhi di chi sa leggere, anche per i venti secoli che ci dividono dalla Crocifissione. Nessuno, prima di Lagerkvist, aveva saputo vedere, con tanta lucidità, l'intero dramma dell'umanità cristiana nella persona di Barabba. Nello sciagurato ladrone di strada condannato a morte possiamo ritrovare addirittura, in alcuni suoi tratti essenziali, il genere umano, posto di fronte, all'improvviso, al messaggio e al sacrifizio di Cristo.
Pär Lagerkvist non fa mai commenti propri né s'indugia in chiose esegetiche e dottrinali. Pär Lagerkvist è un poeta e racconta poeticamente, sia che descriva volti paurosi o paesi felici, senza introdursi mai abusivamente nei colloqui dei suoi personaggi. Ricorre, spesso, al «monologo interiore» di Desjardins e di Joyce, perchè gli permette di esporre quelli che potevano essere i pensieri e i sentimenti dei suoi protagonisti. Ma siccome è poeta è riuscito a penetrare il significato universale e tragico di Barabba assai meglio che non abbiano potuto e saputo fare gli storici e i teologi.
Non si tratta, badiamo, di fantasia gratuita e campata in aria. Lagerkvist parte da una verità teologica — che Cristo è venuto a morire per i peccatori —: e da una verità storica — attestata dai Vangeli —che la vita di Barabba fu salvata dalla condanna di Cristo. Se il Messia era disceso per espiare i peccati dei peccatori — di tutti i peccatori — è chiaro ch'era venuto anche per il masnadiero assassino ch'era rinchiuso con Lui nella medesima prigione.
Gesù mori per la salvezza di tutti ma fu crocifisso, con baratto a tutti evidente, nel posto di uno di questi peccatori, e precisamente in luogo di Barabba. La prima vita ch'Egli salvò fu quella di Barabba. Per credere ch'Egli era venuto a pagare per tutti era necessaria la fede: per vedere che in realtà Egli salvò, con la sua morte, almeno una vita, bastavano gli occhi e gli orecchi. Anche se Cristo non avesse mai salvato nessuno, nel senso spirituale, è indubitato, anche per gli scettici, ch'Egli salvò almeno una vita, almeno un uomo. E quest'uomo era un delinquente, era un ladro, era un omicida, era Barabba. Siccome Gesù aveva chiamato a sè, come il re della parabola, tutti gli sciagurati e i maledetti, era naturale e giusto ch'Egli cominciasse col salvare un ladrone già promesso al supplizio, ch'Egli fosse il prezzo di riscatto per la vita di Barabba. Barabba è, dunque, il primogenito dei salvati come Stefano sarà, qualche anno dopo, il primogenito dei martiri.
Barabba, cioè, viene ad assumere, nell'immaginazione di Lagerkvist, l'ufficio di rappresentante dell'umanità dinanzi al mistero della Redenzione.
Gli Evangelisti non si occupano più di Barabba, non lo nominano più, dopo aver riferito il grido della moltitudine che lo voleva salvo. Raccontano la Resurrezione di Cristo; non si curano della sopravvivenza di colui che fu pagato con le primizie di quel sangue. I teologi, che si cibano soltanto di concetti e di definizioni, potevano accettare senza batter ciglio quel silenzio. Ma non poteva appagarsene l'umana curiosità di un poeta.
Barabba continuò a vivere e seppe certamente chi era morto in sua vece. Quale fu la sua reazione? Che cosa pensò, che cosa fece negli anni che seguirono? Io mi proposi questo problema — forse per la prima volta — in un racconto intitolato Il Figlio del Padre (Bar-Abba) che fu pubblicato nel 1937 nei miei Testimoni della Passione. Anch'io immaginavo che Barabba fu turbato e sconvolto da quella inaspettata salvezza, anch'io lo feci salire sul Golgotha a contemplare la croce del suo divino sostituto, anch'io narrai come avesse cercato i Discepoli del Maestro e avesse parlato con Lazzaro il risorto, anch'io lo feci morir crocifisso.
Ma nel mio racconto la vicenda postuma dì Barabba rimaneva quasi del tutto personale e non s'innalzava a una più vasta raffigurazione simbolica. Ciò avviene, invece, nel libro di Lagerkvist, anche se ciò non è detto espressamente.
L'attitudine di Barabba rispecchia con terribile precisione quella delle turbe umane che videro e conobbero per testimonianza altrui la Crocifissione. Egli era condannato a morte — e in verità tutti gli uomini son condannati a morte — e quando un Altro ha preso il suo posto sulla croce Barabba diventa a un tratto diverso da quel ch'era prima. La Grassona la vecchia amante, e i suoi compagni di delitti, quando torna da loro se ne accorgono subito. E' assorto, silenzioso, pensieroso, misterioso a sé e agli altri. Ha perduto la sua tracotanza tranquilla, la sua spavalderia facinorosa. L'animale è sempre vivo in lui — beve il vino e possiede la donna — ma c'è qualche cosa di nuovo nella sua anima, c'è una strana e confusa curiosità, che lo rende perplesso e dubitoso, che lo conduce dove non vorrebbe andare, che rompe l'equilibrio della sua natura di vecchio criminale. Lagerkvist fa di lui anche un parricida — e qual è l'uomo, esclama Dostojevski, nei Fratelli Karamazov che non abbia desiderato la morte di suo padre? Tutta la legge primitiva, secondo Freud in Totem e Tabù, sorge dal rimorso del parricidio.
Barabba è dunque l'Uomo, l'uomo per eccellenza, che ha salva la vita ad opera di Cristo e non sa perché. Cerca di sapere, cerca d'informarsi, cerca di vedere. Assiste da lontano alla Crocifissione, spia prima dell'alba il Sepolcro per assicurarsi se davvero il Crocifisso risorgerà, si avvicina, senza ben sapere chi sono, ai Discepoli e accoglie le confidenze di Pietro; s'intrattiene con i primi convertiti, che lo respingono quando scoprono il suo nome, e assiste non veduto, a una delle loro segrete assemblee. E infine, quando una ragazza da lui resa madre ma che ha creduto nel Salvatore vien lapidata, egli, Barabba, uccide col suo coltello colui che per il primo l'aveva colpita con la sua pietra. Ha vendicato, con un nuovo delitto una martire di Cristo ma con quel suo gesto omicida che in apparenza è una vendetta contro i crocifissori egli dimostra di non avere ancora capito l'insegnamento di Cristo.
E in verità non lo saprà mai esattamente. Barabba è incuriosito e turbato ma non sarà mai convertito. Torna sulle montagne con i suoi compagni di rapine e d'uccisioni ma anche lassù non è più lui: fa il brigante senza slancio e senza convinzione, la sua mano uccide ma la sua anima è altrove.
Lo ritroviamo, più tardi, ridotto in schiavitù nelle miniere, unito dalla stessa catena a uno schiavo cristiano. Invano egli si fa incidere, sulla piastra servile legata al collo, i caratteri che lo consacrano a Cristo Gesù. Egli tenta di pregare e d'inginocchiarsi insieme al suo compagno di pena ma la sua selvaggia natura ripugna a quella dottrina di amore. Appena vien condotto, sotto l'accusa di Cristianesimo, dinanzi al Procuratore romano, dichiara cinicamente, per aver salva la vita, ch'egli non ha alcun Dio e permette che il segno di Cristo sia sbarrato dallo stile del pagano.
Vien portato a Roma e anche qui egli sente l'impulso, una sera, di recarsi nelle catacombe per assistere, di nascosto, a una riunione di cristiani. Ma non trova nessuno: è la sera stessa dell'incendio di Roma. Sente gridare che quell'incendio è appiccato dai Cristiani e allora, preso da subitaneo furore, s'ingegna anche lui a spargere il fuoco. Se il Cristianesimo è distruzione dei nemici anch'egli, Barabba, si sente cristiano: anche questa volta, come quando uccise il lapidatore, egli sbaglia: vendica e aiuta i Cristiani con atti che sono l'opposto dell'insegnamento di Cristo.
Vien colto sul fatto e incarcerato con i Cristiani. Questi lo rinnegano. Pietro solo gli parla e lo compiange. E finalmente anche Barabba, colui che fu salvato mercè la croce di Cristo, muore, solo e disperato, sopra una croce inalzata negli orti di Nerone.
Forse, però, non del tutto disperato perchè all'ultimo istante, prima di spirare, le aride labbra di Barabba mormorano parole simili a quelle di Colui che per lui morì: A te raccomando lo spirito mio. Gli apparve dunque, in quel momento supremo, la luminosa e dolorosa faccia del Salvatore? Pär Lagerkvist non lo dice ma chiaramente lo suggerisce.
Se pensiamo ora alla storia della Cristianità di questi venti secoli il parallelismo con Barabba risalta in tutta la sua tremenda chiarezza. Anche il genere umano — tolte quelle anime eroiche e accese che in questo libro son simboleggiate da Pietro, da Sahak e dalla Leporina — s'è comportato, di fronte al Cristianesimo, in maniera assai simile a quella di Barabba. E' stato sconvolto e, in parte, mutato, ma non sconvolto in maniera duratura, non mutato fin nel profondo dell'essere. E' stato curioso, ha voluto interrogare i testimoni e indagare le prove ma senza giungere a una adesione totale e perfetta. A momenti ha creduto ma poi ha lungamente dubitato, ondeggiando tra una trepida fede e una rabbiosa negazione. Ha consentito ad accettare il nome e il segno del divino patibolo ma poi, molto spesso, per fiacchezza o paura, s'è arreso, nella pratica quotidiana, ai nemici della croce.
Ed è pure accaduto che talvolta s'è illuso di proteggere il Cristianesimo ricorrendo alla violenza, a ciò che Cristo ha vietato. Il Barabba accoltellatore e incendiario si ritrova, nella storia, nelle guerre di religione e nei roghi degli eretici.
E gli uomini, al par di Barabba, hanno seguitato ad essere rapinatori e assassini, sensuali e diffidenti e hanno pagato questa caparbietà della natura inconvertita con la tristezza, con la solitudine, con la schiavitù e con la morte. Colpevoli e sventurati come Barabha; forse più sventurati che colpevoli.
Questo è il profondo ammaestramento che si può cogliere in questo libro di Pär Lagerkvist: egli ha saputo fare dell'oscuro brigante giudeo, una figura di significato universale.
Ma non solo per questo la sua opera è ammirevole, Lagerkvist, come ho detto, è un poeta e certe sue pagine non potranno esser dimenticate. La veglia notturna di Barabba al Sepolcro spalancato, la visita a Lazzaro, l'attesa della Resurrezione tra gli infelici della Porta del Letame, il colloquio del Procuratore romano con i due schiavi, la vana discesa di Barabba nelle catacombe, sono scene di grande potenza pur nella loro concisa semplicità. Lagerkvist non si perde in descrizioni troppo minute non cade nella facile messinscena del «colore locale», non cede alla tentazione di filosofemi o di misticherie. Narra e rappresenta, con sapienza d'artista, con felicità di poeta, con sicurezza di maestro, con quel pudore nordico ch'è persuasivo, a volte, quanto l'eloquenza del Sud.
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