Articoli di Giovanni Papini

1955


in "Schegge":
Cipressi
Pubblicato in: Il nuovo Corriere della Sera, anno LXXX, fasc. 258, p. 3
Data: 30 ottobre 1955


pag. 3




   Non ho nessuna predilezione nè ammirazione per i famosi cipressi, cari a tutti gli acquafortisti della letteratura a prezzi fissi. I cipressi, quei giganteschi carciofi a mezzo lutto che nereggiano nelle nostre campagne, non mi piacciono nè punto nè poco, nè vecchi nè giovani, nè soli nè accompagnati. Non mi piace quel cipresso solitario e ingrugnato che sta a fare da sentinella per dividere campo da campo, al posto dell'antico dio Termine. E neppure mi piacciono quei cipressi che stanno in fila sulla gobba delle colline o accanto ai muri dei camposanti, tristi e taciti come incappati di qualche confraternita mortuaria.
   A differenza delle altre piante più leali e cordiali che stendono i loro rami dal tronco, come braccia protese verso il sole e l'aria, i cipressi si chiudono e si stringono intorno al fusto formando una cupa unità polverosa e gelosa, e paiono simili a egotisti vegetali diffidenti e sinistri. Non mi piace quel loro falso raccoglimento che non nasconde nessun mistero; non mi piacciono i loro frutti rozzi ornati solo di spacchi; non mi piacciono quelle loro cime spesso moscie, torte o ciondolanti.
   I cipressi simboleggiano i confini della proprietà che divide e contrappone gli uomini; ci ricordano le tombe che ancora più crudelmente dividono i viventi dai trapassati.
   Pretendono che il cipresso è in amorosa armonia coi paesaggi della Toscana e dell'Umbria ma io, benchè doppiamente toscano, lo sento lontanissimo da noi e mi sembra che la sua vera patria sia piuttosto al di là dei mari, in quelle steppe cenerose e su quei colli pietrosi di un antico, di un arido, di un desolato oriente dei nomadi e dei sepolti. Il cipresso è un nero spettro levantino, emigrato quaggiù in oscure età per punteggiare di cupezza i nostri ameni e sereni paesaggi.


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