Articoli di Giovanni Papini

1957


in "Gli inediti di Papini - Il Giudizio Universale":
Napoleone
Pubblicato in: Il nuovo Corriere della Sera, anno LXXXII, fasc. 280, p. 3
Data: 24 novembre 1957


pag. 3




   ANGELO. - Tu fosti il più grande capitano d'eserciti dei tuoi tempi e uno de' più famosi conquistatori d'ogni tempo. Molti videro in te un altro e maggiore Alessandro, qualcuno ti giudicò invece, un battistrada dell'Anticristo.
   Ma dopo aver messo in moto e in lotta e in soggezione tanti popoli, dopo aver sacrificato tante vite, ispirati innumerevoli amori, furori e terrori, del tuo turbinoso passaggio sulla Terra non rimasero che fumacchi di sconfitte e fumosità di orgogli.
   NAPOLEONE. - Rimase una visione di gloria e un bisogno di grandezza. Le generazioni venute dopo di me non seppero e non vollero dimenticarmi: sulla mia vita furono scritte, in tutte le lingue del mondo, centinaia di migliaia di libri. Quando un semplice mortale ha saputo lasciare una tale eredità di gloria, i posteri sentono di essere i suoi debitori. Io smunsi i loro averi e li condussi a morire eppure molti di essi mi amarono appassionatamente fino all'ultimo e infiniti altri, dopo la mia morte, mi ammirarono, furono attratti dal mio nome e dalle mie gesta e le immagini della mia vita esaltarono in essi fantasia e volontà. S'io fossi stato soltanto un decimatore di giovani, un massacratore di folle, un usurpatore ciarlatano gli uomini mi avrebbero subito odiato e presto dimenticato, anche quando non potevano nè sperare nè temer più nulla da me, ch'io rappresentavo miti e princìpi cari al pensiero del genere umano: la gioventù vittoriosa di Alessandro, l'unità europea di Augusto e di Carlo Magno, l'impeto di giustizia e l'eguaglianza della Rivoluzione, la rivincita del genio sconvolgitore sui vecchi schemi, sui vecchi regimi, sui vecchi generali e i vecchi monarchi. E, per tutto questo, nonostante ch'io abbia dissanguato tanti popoli, fui amato e adorato da quelli stessi che incalzavo verso la morte.
   Anche il mio cuore si turbava quando percorrevo, il giorno dopo, i campi di battaglia, tra i cadaveri degli uccisi e i gemiti dei moribondi. Ma pensavo che l'unica via che s'apre ai piccoli e agli oscuri di partecipare alla grandezza è quella di offrire oro, sangue e vita per le grandi idee e le grandi imprese. Quelli che inorridiscono all'idea degli uomini considerati carne da cannone non pensano che la maggior parte dell'umanità non è altro, per colpa di tutti, se non carne da fatica.
   Non nego le mie colpe, non rifiuto le mie responsabilità. La mia frenetica passione di gloria, la mia ambizione di sterminato impero, la mia pertinace volontà di comandare, di signoreggiare, di rifare e di vincere, il mio disprezzo per l'armento umano e per coloro che rappresentavano il potere spirituale, la mia indifferenza, la mia simulazione, la mia crudeltà furori tali che soltanto la divina generosità del mio Creatore potrà comprenderle e forse perdonarle.
   Ma già sulla terra ebbi una punizione ch'io non potevo immaginare, allora, più dura e severa. Una paradossale vendetta volle far sì ch'io ottenessi nella storia degli uomini tutto l'opposto di quel che avevo sognato e voluto.
   M'ero proposto di ricostruire l'impero dei Cesari e di Carlo Magno, cioè l'unità europea che mi pareva gradino necessario verso l'unità del pianeta, e invece suscitai e promossi le passioni d'indipendenza nazionale nei più nobili popoli del continente: Grecia, Italia, Spagna e Germania. Mi proposi di abbattere la potenza della piratesca e mercantesca Inghilterra e dovetti lasciarla più potente che mai, mentre agonizzavo nelle mani di aguzzini inglesi.
   Volli esser l'apostolo armato della Rivoluzione e invece, dopo la mia caduta, prevalse per lunghi anni la Santa Alleanza, cioè la restaurazione del vecchio despotismo e la reazione contro i princìpi che avevano trionfato nella mia anima giovanile.
   Desiderai di fondare una nuova e duratura dinastia ma l'unico figlio morì oscuramente, senza aver regnato, nelle mani dei miei nemici e quel mio nipote che riuscì un momento a risollevare le mie aquile e a diventar padrone della Francia fu travolto dalla disfatta e morì in esilio.
   In me si videro riunite quelle grandezze che di rado vanno insieme: grandezza d'intelletto, grandezza di volontà, grandezza di fortuna, di potere, di fama. Eppure dopo tante vittorie, dopo tanti sacrifici, dopo tante imprese e tante glorie, dopo aver mosso e commosso metà della terra abitata dovetti confessare a me stesso, laggiù nella remota prigione oceanica, ch'io ero soltanto, alla fine, un fallito e un vinto. Un uomo che era riuscito soltanto a ottenere il contrario di quel che l'anima sua aveva vagheggiato e agognato. Il succo di tutte le mie gesta che pure sembrarono meravigliose, è questo: la piccolezza dei grandi, la sconfitta dei vittoriosi, la miseria dei conquistatori, l'impotenza dei potenti. E Dio mi volle, forse, grande e infelice perchè fossi un ammonimento e un castigo per gli uomini.


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