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Molti veggono di malocchio ogni iniziativa libera e su quattro quinti degli italiani c'è ancora l'odio della libertà e l'adorazione di tutte le gerarchie; la curiosità di misurare giorno per giorno l'attivo e il passivo dell'operosità altrui e la disposizione a soffocare chi ha bisogno ogni tanto di una boccata d'aria più sana e anche di un po' di sfogo. E una conseguenza della feticistica credulità nella réclame, è il segno di una decadenza morale e intellettuale che non intravede riabilitazione. Riabilitazione potrebbe tentarsi, per mezzo dell'intelligenza e della forza operosa di caratteri ferrei, ma c'è defezione di uomini intelligenti e di caratteri ferrei in questa vecchia società italiana che non sa rinunziare alle piccine regole, di una prudenza piccina, nè strafottersi di tutto quel complicato ordine convenzionale che impone a tutti una quotidiana autoabdicazione; nè parlare schietto se anche sotto la scorza accademica e decorativa s'agita una ricca vita intima nella dolorosa gestazione di un mondo nuovo o quasi completamente trasformato.
Chi ha osato sfidare la vigilanza sospettosa dei monopolizzatori di idee è stato facilmente vinto con la persecuzione
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aperta o con la reticente lode, data senza convinzione, anzi con la più astuta connivenza perchè i giovani, quelli desiderosi di rinascere con più intenso fervore alla vera vita e perciò disposti a protestare con tutta l'anima contro le gerarchie di autoformazione, dimenticassero e trovassero ancora tollerabili i vecchi sistemi.
È inevitabile il non essere capiti? È proprio impossibile camminare sui ghiacci di Cocito senza dar la parola d'onore che non strapperemo i capelli dal teschio latrante di Bocca; senza tollerare con amaro disprezzo la turba feroce che grida: a Filippo Argenti!? È dunque necessario rassegnarsi a tacere dopo aver tanto combattuto e sofferto per rinvigorire questa floscia gioventù, schiava dei pregiudizi d'ogni genere, sepolta viva sotto un arsenale enorme di errori storici, filosofici, estetici, pregiudizi ed errori che hanno fatto dei sedimenti ai quali il critico d'arte da giornale ha obbedito come l'ultimo e più umile lettore della gazzetta in un qualunque villaggio sperduto nell'appennino?
Io che son giovane e ho partecipato con grande ardore ai movimenti per una propaganda di educazione intellettuale migliore in senso prettamente italiano, ho potuto persuadermi che se il pubblico per pigrizia o incapacità respirava bene e volentieri in questo stato miserando di cose, la stampa, fatte poche eccezioni, non era all'altezza del suo ufficio.
La tradizione viva dell'idealismo, il cui connubio con le acquisizioni positive dell'indagine moderna ha segnato nella storia dell'intelligenza italiana il principio di un nuovo periodo, trovò i più impreparati ed ostili, come se coloro i quali facevano propaganda per idee sane e nuove fossero stati dei vagheggiatori dell'impossibile piuttosto che degli assertori di una cultura viva e attiva destinata a risanare
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la vita intellettuale guasta nelle attitudini e nello spirito. Reazionari in un ambiente viziato, dunque rivoluzionari. Lo dicevano tutti: gli intellettuali e gli analfabeti; lo provavano tutti: i letterati del quarto d'ora e i lettori del caffè la Rosa; l'avvocato qualunque e lo straccione quasimodo. Rivoluzionari! O difendetevi, o scampate il pericolo d'esser linciati, se vi riesce.
La prima ostilità veniva dalle classi colte. È un fatto questo del quale non posso disconoscere la dolorosa gravità. Ci erano ostili per i difetti positivi della loro cultura, come per i difetti negativi della nostra. Ci sono ostili perchè non hanno capito la vita moderna nè si sono presi lo scomodo di conoscerla; perché da perfetti filistei hanno insegnato a scuola ciò che a scuola avevano imparato, prima di tutto un sacro orrore per quel che si tentava e si faceva di veramente nuovo; perchè ci sanno disinteressati e sinceri, essi cercatori accaniti di cattedre e d'uffici civili, accattoni in redingote di stipendi e di celebrità; ladri in guanti gialli di carriere e di posizioni sicure. Sono le ostilità derivate dai pregiudizi e le diffidenze che l'enorme dislivello di attitudini scientifiche e di coltura ha fatto tra il pensiero comune e il nostro e le nostre stesse divisioni interne.
Ci erano ostili gli stranieri, che seguivano con spavento la nostra azione annunziante un largo risveglio di energie, che leggevano la nostra critica, appoggiata a un esame diligente dei fatti e maturata nel fondo della coscienza ormai di capacità introspettiva moltiplicata; e ci erano ostili non già perchè vedevano errati i nostri criteri fecondi di direzioni nuove, ma perchè temevano un tramonto inglorioso dei loro idoli. O Santoiddio, ma c' è un posto per tutti! Non veniamo mica a far a pugni per dirvi che i vostri sono sentimentalismi
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che non hanno nulla a che fare con quel complesso di vedute, di criteri di orientazioni nuove che ci staccano quasi nettamente da voi! Non veniamo mica a dire: noi siamo una schiera di geni, voi un branco di cani, affermando orgogliosamente la fine di quella nefasta e camorristica critica che invece di studiare per esempio Mascagni, dice quanti anelli egli porta in dito, e quanti fagiani ha uccisi il maestro Puccini, e quante partite a scopa ha vinto Leoncavallo, per crear loro intorno la necessaria atmosfera di simpatia. Noi abbiamo cessato di subire la vita italiana per cominciare a dominarla. Le nostre parole e le azioni di molti di noi, giovani, se prima erano di protesta e profetiche, oggi sono espressioni di una volontà conquistatrice e attuatrice. Siamo una forza ed abbiamo perciò dei diritti, il diritto di tagliare ogni vincolo che ci univa ai vecchi dissertatori di arte (prima del De Santis ci fu un vero grande critico? — E il De Santis, come fu inteso e seguito?) e la forza di trarre dalle viscere della gioventù nostra un movimento moderno di restaurazione della vita nazionale, accettando dal passato ciò che è necessario o come condizione di fatto o come acquisizione stabile, e ripudiando ciò che la nostra coscienza non ci permette di continuare e ravvivare.
Tra il passato e noi, tra un ambiente che esige uno stato di adattamento e noi che vogliamo crearne uno nuovo che abbia relazione interiore con la nostra vita nuova, non è rotta ogni continuità storica, nel fatto, si è creata un'atmosfera di diffidenza, nella quale si svolge una lotta piuttosto acre contro coloro i quali o imbaldanziti per aver scritto chissà mai quale manuale gastronomico, o fossilizzati in un'epoca, si illudono di essere veri rappresentanti della classe
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colta, menti direttive, pontefici massimi padroni di dettar leggi e sputar sentenze. — Non è contro il passato dunque, è contro i professionisti dell'ozio mentale, contro i cacasenno che pontificano e corrompono per la loro grottesca ignoranza lo spirito pubblico, incapace, senza un orientamento preciso, di guardare davanti a sè invece che alle proprie spalle, e di trovarsi a suo agio nelle nuove concezioni filosofiche della vita. È contro i conservatori del rudero, del vecchio palazzo, della piccola o grande biblioteca paesana, del vecchio modo di sentire e di vedere, per cui non è permesso più un atto eroico della volontà, un'affermazione netta della coscienza; per cui è un'aberrazione amare il mondo che ci circonda, la vita che dobbiamo vivere e le nuove idealità che sorgono spontaneamente ma necessariamente da questa vita, la quale, oggi più che mai ricca di sorprese, non può tollerare la nostra schiavitù artistica e morale. Il culto del capitello, l'ossessione dello scavo, ci hanno fermato sulla soglia dell'ottocento, ci hanno inchiodati in un ergastolo intellettuale da dove non è possibile uscire se non con le ossa rotte. Frantumati. Avariati. Eccoci ancora qua a volgarizzare e studiacchiare Dante, Petrarca, Ariosto, Tasso; Raffaello, Botticelli, Tiziano; Verdi e Donizetti, per virtù dei nostri professori, i soli che abbiano voce in capitolo, in questa Italia diventata essenzialmente critica e professorale.
I rivoluzionari dell'ultima ora, i liberisti per tornaconto, hanno tentato una rivoluzione, facendo un'apoteosi del passato ma movendosi nel fatto in aperto antagonismo con esso.
La vita italiana d'oggi industrialista e democratica, esige un'arte adeguata; ed ecco che di essa si fa interprete, con mezzi disonesti, con esagerazioni retoriche, con vuotaggini qualunque: nulla con nulla. Zero — zero.
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Ed eccoci noi a fare, scrivendo e agendo, la controrivoluzione. Anche avendone la forza non abbiamo la volontà di imporre ritorni a forme storiche superate e amici d'ogni acquisto della vita moderna che sia utile e onesto per nuovi progressi e sicure ascensioni, ammettiamo il passato, ma come premessa e delucidazione del presente. Se la coltura non ci indicasse e imponesse spesso un cammino a ritroso, se coltura non significasse stasi dello spirito e perciò viltà mentale, potrebbe essere per la giustizia tutt'altro che un neutralizzatore d'energie e potrebbe giovare al vero artista, che io concepisco soltanto come creatore o ricercatore di creazioni; ma la coltura che t'empie la testa di carta e t'ingravida d'un pastone di briciole che nessuna purga può buttar giù e ha creato fin qui due tipi di studiosi: l'amatore e il critico, non solo neutralizza ogni energia attiva, ma ti pone in condizione di passività di fronte alle manifestazioni vive della vita che è moto continuo, continuo divenire.
Non so poi come il continuo progresso delle cose debba fatalmente imporsi e quello delle anime debba essere soffocato. Non so come possa regnare il tipo studioso, l'uomo erudito che è solo artista esterno, e si aprano decine di manicomi metaforici per chi in un'atmosfera giovane si sente giovane e scrive e opera da giovane, cioè con vigore, audacia, emotività moltiplicate in confronto di certi temperamenti flosci che non sanno uscire dalle forme chiuse della tradizione. A chi va con la corrente sbandieramenti, auguri, e quattrini per il buon viaggio; a chi suscita delle correnti opposte colpi di remo perchè affondi subito. È stato sempre così? Non sempre.
È la nostra l'epoca sfiduciata dei sapienti che hanno paura di quei pionieri della vita interna, di quei veri minatori
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dell'anima i quali con una semplice esplosione poetica dissolvono ció che essi hanno chiarito, unito e sistemato. È l'epoca degli scavatori nei pozzi psichici che vegetano per lasciarsi spezzare le catene d'idee alle quali hanno affidata la propria vita.
Queste cose scrivevo, suppergiù, nel 1906, dopo aver letto un numero del Leonardo, per pubblicarle in un giornale letterario di Verona, fondato e pagato da giovani.... di tutte le età. Avevo diciotto anni appena. La mia prosa fu respinta, ma in cambio mi stamparono un sonetto con un verso di dodici piedi e una assonanza, scambiata per una rima.
La lettura del Leonardo mi riconciliava con la vita. Trovavo fede e salute. Energia produceva energia.
Avevo lavorato sempre per me e desideravo rimaner fedele a me stesso, soltanto per raggiungere un risultato.
Ma tutto intorno, eccetto questo Leonardo, erano manifestazioni di invirilità.
Cominciai ad amare questi giovanotti di cuore caldo, e come se da allora una goccia di sangue nuovo infusa nelle mie vene, mi spingesse a ribellioni e autodecisioni più efficaci, mi sentii umiliato, inquietato e nello stesso tempo spronato a un lavoro più libero, a uno stato migliore.
C'era fra loro, Gian Falco: scettico o debole, gliene dicevano di tutti i colori, ma che ti sminuiva con un colpo molti uomini ingiustamente celebri e seguìti; che prometteva climi più dolci e luminosi, abiti spirituali più seri e più costosi.
C'era Gian Falco: un personaggio che non ti pareva completamente reale, tanto era sferzato dalla passione, tanto si torturava e torturava d'ironia e beffa; e si faceva giuoco oggi del giorno avanti ma era sicuro, era deciso del partito preso: valorizzare i grandi artisti mal compresi e dimenticati,
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sgonfiare gli scrittori prediletti dagli editori che erano, come oggi, i più vuoti di risonanze interiori.
Per Gian Falco, e anche per gli altri, vivere era rifare il mondo. Creare. Si voleva la creazione come vita concreta. Si cercava — nell'attività dello spirito una realtà superiore necessaria, totale.
Atteggiamento?
Ma s'era stanchi di quelle mezze scimmie che ci davano i soliti lazzi, espressione di un torpore ripugnante della mezza coscienza: e questa posizione dei giovani era una presa di possesso dello spirito già progredito. Non si poteva continuare all'infinito in quel caos di incoerenze, in quello sperpero di volgarità che era un affannoso procacciarsi di quattrini anzichè un doloroso elaborarsi di una coscienza più libera e più nostra. Non c'era più nulla da riordinare, da sistemare.
Bisognava rifare.
E questi giovani, cominciavano intanto, abolendo le idee volgari, le immagini fruste, le costruzioni di moda.
I fossili letterari opponevano la loro durezza di poveri diavoli ostinati nel chiuso cerchio d'una attività meccanica senza tendenze in sorprese: questi invece — con le loro bizzarre scappate filosofiche e poetiche, con i loro aizzamenti contro le celebrità false — erano dei giovani che si facevano amare e seguire.
Punto di ritrovo, per svolgere i problemi che si presentavano all'anima moderna come più urgenti; per intendere il valore e la portata di queste giovani menti già organizzate; per decidere scelte ed eliminazioni tra la confusione dei fatti e dei pensieri: il Leonardo. Nessuna rivista italiana ha fatto tanto bene ai giovani quanto il Leonardo.
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Nessuna generosità di gruppo ha seminate tante buone idee.
Il Leonardo insegnò qualche cosa e giovò a tutti. Fucina italiana del Pragmatismo.
Ma io credo bene che l'appropriazione di questa dottrina "che ebbe dal Peirce il nome e dal James la forma" non abbia di molto migliorato nè i socialisti nè i modernisti, nè i preti. La discussione si fece un po' dappertutto, e forse nessuna dottrina divenne altrettanto popolare, ma chi ci rimase sulla breccia a combattere in favore di questa lucidissima corrente di idee?
Papini dice che "i libri rimangono e ogni filosofo deve fare i conti con il Pragmatismo sia nelle teorie della conoscenza che in quelle della morale", ma intanto una guida sicura non c'è più, e nell'attività filosofica contemporanea mi par che non ci sia un gran desiderio di studiare e intendere l'attività filosofica e critica che si svolse intorno e dentro il Leonardo.
Eppure, risultati tangibili ci furono, perché ciascuno dei Leonardisti, al di fuori dell'influenza collettiva di gruppo, non riespose e propagò le idee venute d'America e d'Inghilterra, ma chiarì, svolse, aggiunse, propose per proprio conto, e contribuì alla reintegrazione del carattere morale e intellettuale dello studioso italiano, il quale ridivenne militante. Spiriti avventurosi "più paradossali e mistici" Papini e Prezzolini, più calmi e logici Vallati e Calderoni.
Ma Papini è stato amato e seguìto come un condottiero, capace di tener nelle mani tutti i fili ideali d'un movimento di rinnovazione. Papini è stato, con tutti gli errori che gli hanno causato inimicizie e repulsioni, il più amato e seguìto.
Non si trattava del rappresentante di un nuovo indirizzo
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di pensiero, nella filosofia d'oggi (questo se mai c'era in Vailati) ma di un artista che si formava — producendo, ragionando, esaminando l'interno lavoro del suo linguaggio.
Noi s'era spinti ad amare Papini non perchè egli fosse una guida sicura verso la vita intensa dello spirito, ma perchè, essendo indubbiamente il più moderno e travagliato uomo di lettere, ci obbligava a una tensione più concentrata verso sè stesso e la sua arte. In un paese di tante correnti di coscienza, frastagliate in nuclei di volontà tendenti in tutte le più ambigue direzioni; in un paese come il nostro di desideri e speranze nuove e di soddisfazioni nel ricordo (aspirazione cosciente alla profezia da una parte e riposo supino nella storia dall'altra), Papini — vogliatene pure stabilire i caratteri contraddittori — era il più coerente malgrado la volubilità e la mobilità del suo contenuto filosofico — poetico.
Si diceva: quest'uomo vuol distruggere ogni cosa! Ma da questo vile e refrattario presente, che non aveva — e non ha! — saputo mantenere pura la fede in un'arte elevata e decorosa, chi si sarebbe salvato se non avesse visto lui, Papini, reagire alle violenze immorali dell'ambiente con la impetuosa vitalità d'una coscienza profondamente turbata e sbattuta da un fortissimo dolore, perciò bisognosa di trarre impeto al proprio bisogno di eroismo?
E s'era in tanti, allora, a non avere più la volontà dei sufficienti; a desiderare degli atti palesi — magari rumorosi — di severa giustizia difensiva per non rimanere irretiti nella trama dei più logori e volgari rifiuti dell'epigonismo carducciano, pascoliano, dannunziano, e — ahimè! — marradiano, bertacchiano, — giacosiano — stecchettiano, e chi più n'ha più ne metta.
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Era tempo di finirla, con un'arte senza posizioni ideali e una critica snaturata, impostando la ribellione proprio come faceva Papini, da artista, cioè con tutti i mezzi di cui poteva disporre la coscienza, per affermarci: interpretando la vita offertaci da compiute personalità, conscie del proprio potere di autodominazione, e reintegrandola, affermandola contro ogni possibile errore valutativo (critica); esprimendo pienamente con sincerità la propria visione della vita (arte).
A distanza di dodici anni si dice che: egli ha fatto se non proprio opera di critico, certo di bella e nobilissima divulgazione. Ma di questo mi occuperò in seguito, a lungo, perchè non si deve essere ingiusti con quest'uomo tutto sincerità dolorosa, che disprezzando ogni compromesso libresco, condensa nelle sue pagine di critica il succo più sostanzioso dei suoi conforti e sconforti intimi.
Ora si deve accertare che Papini, esponendo i risultati dei suoi studi (non di erudito — perchà l'erudizione non serve al possesso di un'opera d'arte), manifestando i propri slanci, le proprie virtù, e le proprie miserie, in modo da rispecchiare con immediatezza la posizione della sua volontà nel dramma cosmico, non ha fatto opera negativa e polemica ma affermativa e creativa; non ha distrutto; ha costruito.
I pettegolezzi, gli schiamazzi, le stamburate sono una semplice dolorosa necessità, di fronte a qualunque degenerazione della coscienza, per meglio nascondere il falso zelo e la sterile fede dei conservatori, che si ostinano a soffocare il presente vivo sotto un presente arbitrario e....... decrepito.
Appare come un vero fine prossimo, e sembra nato in un momento pratico dell'attività spirituale, questo prepotente
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ampliare o distruggere con un lavorio intellettuale che impone una necessaria polarizzazione della coscienza; invece si tratta di un vero compromesso dello spirito con se stesso, un "modus vivendi et progrediendi " affermato sì da necessità momentanee — e causali — ma tutte ritornanti alla musicalità (intimità) caratteristica di questo spirito, necessità che hanno bisogno di essere soddisfatte per istinto di integrazione spirituale, e determinano lo svolgimento completo, della vita interiore. In questo svolgimento, idee e problemi opere ed autori, rientrano come motivi — come qualche cosa di sopraggiunto — ma la loro forza e la loro direzione, costituita e indicata dall'armonia dello spirito, li accorda al primo fatto originale, cosicchè arrivano a noi lettori, non più separati ma ben fusi, come se si trattasse di una vera contemporaneità sostanziale fra essi e il fatto originale medesimo. Certe escursioni ed incursioni di Papini nella letteratura e nella filosofia sono considerate degli sviamenti, provocati da fatti esterni — invece si tratta proprio di motivi sopraggiunti, ma che si associano subito per necessità consentanee alla loro propria indole, perchè sono sempre in carattere, perchè seguono subito — una volta incanalate — una direzione spirituale unica la quale ha ormai dato unità e coerenza a un temperamento.
E temperamenti come Papini sono una forza. Sviluppando la propria personalità, riferendo tutta la sua azione e le sue aspirazioni al proprio interno — poichè solo in sè stesso ha trovato la forza per liberarsi e formarsi — ha determinato, senza saperlo, una crisi e una ascesi in quasi tutti i giovani: ai quali ha fatto del bene e del male. Coloro che videro la topografia della propria vita nel Papini polemista (espressione del ragazzo dal cuore in ansia perchè
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sempre appagato, veduto bene nell'Uomo finito), hanno subito vacillato e son caduti; coloro che seppero conoscerlo nell'essenza e nello scopo, e perciò lo compresero e lo amarono, hanno avuto in lui un formidabile aiuto nel rompere catene, sgretolar muri, conquistare una posizione di equilibrio, soprattutto nell'evitare ogni ipocrisia di carattere e di vita.
Papini rappresenta una forza una volontà e una aspirazione collettiva: l'Uomo finito è la tragedia di quasi tutti noi, uomini troppo somiglianti agli altri uomini, ma stanchi e soli come esiliati.
I libri di polemica — per chi non vede nelle proprie virtù un permesso di caccia ai vizi altrui — sono una vera ed esatta valorizzazione della nostra forza intellettuale, attraverso adesioni spontanee e prove di avvelenamento, tentativi di impadronirsi della verità, di rendersi chiaro. Sono specchi per vedere ciò che gli manca, prove di cancellare le ombre del sole — cioè fatica inquietante per costruire un solido edificio all'anima, per dare una forma alla vita.
Papini ha insegnato con l'azione: l'amore per i grandi scrittori nostri trascurati o dimenticati, per tutti quelli spiriti d'eccezione la cui opera può essere d'aumento alla coltura dell'anima; ha introdotto, con altri, diffuso e applicato il Pragmatismo; ha insegnato, tra i sibili delle ingiurie, quella fiera indipendenza che dètte fascino ed attrazione al Carducci; percotendo i mediocri di tutte le arti, temperando la nenia romantica con sonori stridori di risate.
Cinico e beffardo, ma non catalogato sotto marca straniera, eccolo qua, emulo di Carducci, presentarsi senza soggezione e tenerezze, per rimettere in argine il gusto traviato dei giovani, lottare ad armi corte, per essere e nello stesso
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tempo continuarsi. E sopra ogni cosa, imprimere la forma delle sue mani, e in ogni questione consolidare la sua presenza morale.
Non abbiamo dogmatismi. Il Leonardo, la Voce, Anima, Lacerba, La Vraie Italie, le 5 Riviste fondate e condotte da Papini, per la refezione comune dello spirito, persuasero per i loro desideri, esposero energie innerbate di volontà e intelligenza. Orientarono chi desiderava di sorpassarsi. Accanto vennero i competitori, ma per esasperare il bisogno di un compito deciso.
Chi aveva voglia di innestarsi sangue fresco ed alacre era lì a purgarsi dal contagio dell'epoca; eravamo lì, per una maggiore e più libera soddisfazione di libertà. L'arte non è più specchio di vita borghese.
Si aggruppano qui tre, quattro, cinque volte, i decadenti di tutte le arti, generati e degenerati nella macerazione del vizio che affina, leviga e falsa, per un maggior bisogno di religiosità, di salute, di riscatto.
Qui si fa l'esperienza più dolorosa e rumorosa, ma chi dà un forte impulso di sincerità, è Papini, il quale per primo, stretto nella morsa roditrice della insoddisfazione, si stacca dall'oscurità dell'approssimativo, dell' incerto, del velato per insegnare — con l'esempio — la sincerità della confessione, in una eloquente espressione mai sentita, o per lo meno, non seguitata negli Italiani di oggi.
Il nostro letterario paese, che non guarda tanto per il sottile, non si immischia in questioni così complesse come lo studio degli elementi statici e conclusivi che si trovano per esempio in D'Annunzio, o anche in Papini, ma sarebbe bene che sapesse, almeno, per quali dei poeti nostri si può aprir l'anima alla speranza d'un futuro migliore. Ma
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non sa purtroppo staccarsi con una linea netta di divisione, da un ereditario letargo mortale, da cui tutte le espressioni di vita appaiono come incomposti clamori futuristici; non sa pigliar gagliardia da nessuna delle forme contendenti di vita; concepisce l'artista come un docile e piacevole acchiappanuvole e l'editore come un impresario di circhi equestri. Non ha mai scavato nell'immenso terreno del passato e si ritiene autorizzato a sorridere del rinnovamento vitale del presente, senza capirlo.
In ogni modo c'è anche di che rallegrarsi: i giovani di questa generazione sono intellettualmente, così poco professori che cercano il proprio ubi consistam entro sè stessi. Questo non è movimento verso l'interno, ma opposizione all'invadenza della realtà esterna: principio di liberazione. Quanto basta, per ora.
Questi giovani però — parlo di quelli che non hanno ancora trent'anni e perciò vengono ora a contatto con i maggiori scrittori — se respirano uno spirito nuovo nell'opera di Papini, non arrivano a vedere come l'uomo è completo col poeta. Trovano un Papini così e così — non però aulico e laureato — con qualche modificazione dovuta agli avvenimenti del suo tempo — che è il nostro tempo — ma non sanno nulla della sua perseveranza di organizzatore, delle sue dolorose esperienze di uomo e di artista: e ne desumono il carattere dalle prefazioni, alcune delle quali sono poi scritte in un tono di corbellatura tutto fiorentino.
Come è stata dolorosa. — per fatiche e delusioni, pentimenti ed errori — la costruzione di quell'edificio che sono oggi i suoi ventiquattro volumi si capisce tutti, perché ogni pagina brucia di volontà, di potenza e s'agghiaccia di rinunzie; sanguina di amputazioni ideali e si scolora di vita
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comune; è marcia funebre per la vita (di cui non sa trovare la ragione) e apoteosi del proprio io, manifestazione di molte esigenze d'uno spirito e spiegazione del suo concetto fondamentale di eccitamento alla contradizione, per raggiungere il suo fine ultimo, l'emulazione di Dio — la conquista della divinità poetica — Essere. L'unico.
Dolorosa: ma buttata dai fondamenti a una discreta altezza con tante energiche battute di genialità, che ne resta ammirato anche chi corrompe e uccide le fonti della nostra vita per professione.
Hanno detto tante volte: Nietzsche, Nietzsche, Nietzsche.... ma egli fu un distruttore, mentre Papini, svolgendosi, è passato per lo studio nietzschiano, lasciando per la via percorsa — ad esempio di chi arranca arranca senza arrivar mai — un segno duraturo del proprio passaggio.
Che egli ci ha dato con la sua opera una ambientazione meravigliosa dei filosofi poeti letterati suoi coetanei, — quindi una costruzione storica — è fuori di dubbio. Come è fuori di dubbio che egli ha trovato la realtà completa nella completa finzione.
Lo hanno detto anche i suoi critici — sempre ingiusti e apertamente ostili — quantunque Papini declini la competenza della critica.
La dimostrazione di quanto affermo qui scaturirà, almeno lo spero, dall'insieme di questo amoroso e disinteressato studio sul Papini poeta che ho il vanto di aver seguìto ed amato sempre senza imitarlo mai.
◄ Un costruttore: Giovanni Papini