Vivere coi poeti
[Capitolo] Gli anni di Papini, pp. 70-71
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Qualcuno, forse, sta scrivendo un compiuto saggio sull'attività di Papini e i suoi due tempi diversi: quando, ancor fuori della Grazia, ci appariva scrittore ereticale e realisticamente potente; e quando, rientrato nell'ovile - senza, per altro, troppe arie penitenziali - parve diventato l'ultimo continuatore della patrologia cristiana, riecheggiando ambiziosamente l'impeto di Agostino e il paradosso di Tertulliano.
Si può interrompere ora il saggio per salutare i suoi settantaquattro anni. Anni forti, pieni di fede e di opere; e qualcuno s'incaricherà di dirci se tutta questa sua ricchezza, donata quasi con aria dì sperpero, ha avuto uno sviluppo d'energia prevalentemente elettrica e di intelligenza, o prevalentemente termica o di calore e confidenza e di abbracci commossi. E s'è detto la mente e il cuore di Papini. Gli editori ne agevolano l'occasione pubblicando l'Arcilibro, quasi raccolta dei suoi libri di quaranta-cinquant'anni fa, concerto fantastico che ancora resiste; e se qua e là par di notarvi delle crepe, somigliano a quelle che consacrano d'antichità le volte delle cappelle, traversando le facce delle sibille e dei profeti negli affreschi dei nostri pittori famosi.
Portato dalla nativa ambizione a vivere nella spaziante grandezza, Papini ha obbedito al comandamento: Duc in altum, «prendi il largo»; e ha gettato le ancore nel mondo, oltre
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le frontiere. Fu sempre sua ambizione quella di scrivere per gli uomini e non per i concittadini soltanto; per le chiese e non per il colonnino del critico. E per arrivare agli uomini, sapete che ha anche osato fingersi in capo la tiara di un non mai esistito pontefice.
Posizioni un po' paradossali? Papini ha sempre avuto bisogno di vivere nel paradosso, trovando però la misura del vivere paradossale. Papini è il classico dell'iperbole spirituale; e poiché egli ha spesso amato distinguere gli scrittori in dinastie e filoni, diremo anche noi che Papini appartiene alla nostra tradizione romantico-barocca. Papini è del più glorioso barocco della nostra sensibilità, se il barocco è l'espressione in eccesso, anzi, è la gioia dell'eccesso; ma l'eccesso di una forza non d'uno sforzo. In termini d'arte, diremo che Papini non è col Palladio e la sua mitica armonia; è col Borromini-Bernini, o la gioia e l'equilibrio dell'eccesso.
Ma queste sono formule e nomi; al di là dei quali sta lui, quella cosa felice che è Papini poetante e quello che ha aggiunto di nuovo alla nostra scrittura con le sue migliaia di pagine che un suono lirico tiene sempre vive e maestose. Abbia la temperatura scottata dell'Uomo finito e delle Stroncature, o l'aroma arzente di Opera prima, la sua scrittura generosa, nutrita d'ulivi e di sole e di Chianti, s'affonda nel passato paesano e toscano, dove il terreno è più sodo. Ed è maraviglioso che questa dorata abbondanza continui a durare anche nel tardo autunno.
Sappiamo che Papini ora è sofferente e cieco; è sventura che gli mette attorno al capo l'alone del profeta biblico o dell'aedo greco; e par consegnarlo al mito.
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